giovedì, Novembre 21, 2024

Bruno Reidal di Vincent Le Port: recensione #cannes2021

Non è la banalità del male a spingere il diciassettenne Bruno Reidal a decapitare un bambino, ma l'esistenza, vero e proprio soggiorno all'inferno. Il debutto nel lungometraggio di Vincent Le Port, visto a Cannes per la Semaine de La critique

Il caso del diciassettenne Bruno Reidal sconvolge la Francia del primo novecento, per la lucida e crudele urgenza pulsionale che lo spinge a decapitare un tredicenne senza alcun motivo apparente. La malvagità che possiede il ragazzo è tutt’altro che banale, perché si concretizza al termine di una riflessione sulla natura istintuale, lotta costante che rende l’esistenza come un vero e proprio soggiorno all’inferno.

Il martirio di Bruno viene messo insieme dalle testimonianze del ragazzo, raccolte in carcere dallo psichiatra Alexandre Lacassagne nel 1905 e riportate nel recente volume di Stéphane Bourgoin intitolato “Serial Killers”, fonte primaria per la sceneggiatura scritta da Vincent Le Port e ritagliata su tre adolescenti, che dai sei anni ai diciassette incarnano le fasi principali nella vita del ragazzo.

La serie di omicidi si arresta dopo il primo crimine, ma rimane ben presente come disegno predittivo capace di determinare un nesso irrisolto tra determinismo teologico e libero arbitrio.

Il film di Le Port si apre e si chiude con la brutale decapitazione, creando una progressiva tensione omicidale, successivamente esclusa e inclusa dal campo visivo. Il contrasto è lo stesso creato tra immagine e parola, con la seconda in funzione apparentemente didascalica, legata com’è ai diari scritti in prigione da Reidal su richiesta di Lacassagne, ricchi di quei dettagli che servono al regista francese per costruire inquadrature rigorose, la cui linea parallela rispetto al testo viene spezzata dal vuoto potenziale dell’immagine.

Non c’è quindi un’esplicita costruzione del fuori campo come epifania dello scarto tra suono, parola e inquadratura, ma una possibilità di liberarsi dai testi del diario proprio quando l’opacità della visione riesce a dire altro sulla fragilità dello sguardo.

Attraversata dalla morte, la vita di Bruno è il racconto crudele di giovinezza legato alla Francia rurale inizio secolo. Per quanto lo sguardo sociologico e le domande formulate dall’equipe di Lacassagne cerchino tracce di causalità tra crudeltà ed eventi dell’infanzia, Le Port contrappone all’inesorabilità della ricerca scientifica, l’irriducibilità del mistero, soprattutto attraverso i volti di Roman Villedieu e Dimitri Doré. Quest’ultimo, a cui viene affidato lo sguardo di Reidal a 17 anni, delinea attraverso postura ed espressione, un contrasto tra cupezza e malinconia, infantilismo e arcaicità, quasi che lo sviluppo del ragazzo venga bloccato in una temporalità aberrante.

Nello sguardo di Bruno indirizzato ai compagni di classe, la nuca maschile diventa una costante sulla quale costruire una stratificata anatomia del desiderio.
La visione suscita sentimenti contrastanti e assegnati alle diverse fasi di Bruno, inclusa l’esperienza del seminario, luogo dove l’aggregazione di voci e pensieri distruttivi può essere cancellata dal silenzio e dal rigore di un tempo fuori dal tempo.

Mentre il desiderio di possesso si tramuta quasi sempre nel suo complementare distruttivo, esclusivamente rivelato dalla parola, il nitore dell’immagine mantiene intatto quel confine possibile tra violenza e dolcezza, abbraccio e pugnalata, come ritratto di una distanza incolmabile tra l’osservazione e il gesto. I momenti in cui l’immagine ci dice altro, rispetto ai pensieri di morte e dominio scaturiti da quello che Bruno vede, sono quelli in cui le potenziali vittime di Reidal vengono immerse nella luce della libertà, linea di demarcazione fragilissima tra l’amore e la violenza.

Su questa linea, l’opera prima di Vincent, riesce a far emergere l’esercizio delle stesse pulsioni nello spazio quotidiano della vita rurale e nel modo in cui le istituzioni, cancellando le ambiguità della natura, eliminano anche la compassione come riconoscimento di una sofferenza comune.
Reidal non palesa alcun rimorso e nell’elaborazione di un pensiero desunto dalla cultura religiosa, quello che concede perdono agli assassini, ma non ai suicidi, rivela la possibilità del pianto solo di fronte a quella compassione nei suoi confronti, che non arriverà mai.
Sarebbe come essere finalmente osservato e compreso entro un punto di vista che non separa più il bene dal male con i parametri del giudizio e della punizione.

La distanza Dumontiana praticata da Le Port ci consente di osservare il male nel volto di Bruno e riconoscerlo come famigliare. Respinti e attratti, insieme a lui teniamo stretta tra le mani la testa di un bambino decapitato, come fosse quella di un maiale sgozzato. Potremmo mai perdonare e perdonarci?

Bruno Reidal di Vincent La Port (Francia 2021, 102 min)
Interpreti: Dimitri Doré, Roman Villedie, uJean-Luc Vincent
Fotografia: Michaël Capron
Montaggio: Jean-Baptiste Alazard

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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