Seconda, intensa giornata del concorso internazionale cortometraggi al Ca’Foscari short film festival quella di ieri 19 marzo, con ben tredici film provenienti da undici paesi diversi tra cui due italiani, due portoghesi e i rimanenti da Argentina, Australia, Giappone, Slovenia, India, Germania, Austria, Cina e Stati Uniti.
Al di là del tema centrale del festival, quello dell’universo maschile osservato attraverso diversi contesti politici, culturali e formativi, i corti scelti per il secondo appuntamento con il concorso internazionale mettono al centro il contesto famigliare inteso in un’accezione molto larga, dal nucleo tradizionale a quello più apolide della città come connettore di complesse esperienze sensoriali.
In questo senso il bellissimo lavoro di Chiatti – Faggionato – Tucci intitolato “Ardeidae” dialoga a distanza con “The sound we see“, il corto realizzato dal collettivo Echo Parks dietro stimolo dei fondatori Paolo Davanzo e Lisa Marr. E il suono si vede davvero come nelle sinfonie visive di Germaine Dulac, attraverso un recupero dei travelogue degli anni venti che documentavano la vita urbana, rendendo tangibile il suono attraverso il ritmo del montaggio, i punti di vista impossibili, le trasformazioni della luce catturate dalla sensibilità dei supporti. Il collettivo, che progettualmente è partito da Los Angeles per toccare città come Hanoi in Vietnam e Guwahati in India, ha utilizzato principalmente materiale in 16mm costruendo una sinfonia sinestetica che consente di vedere e “toccare” il suono con quello spirito aptico che costituiva parte del propellente creativo di tutto il cinema dell’occhio legato alle avanguardie storiche; ne viene fuori un ritratto magmatico della città, ipertrofico ma allo stesso tempo ai limiti con l’ipovisione, quasi ci si dovesse riabituare ad un tipo di sguardo in grado di recuperare lo spirito del cinema delle origini senza abdicare alla scorciatoia della nostalgia, ma cogliendone lo spirito di ricerca ancora pulsante e vivo; le immagini sono quindi quelle della vita urbana, del mercato, della città elettrica illuminata dai neon e dei club che animano la nightlife.
Ardeidae costruisce un rapporto simile tra audio e immagine della città, ma passando da un percorso molto diverso; da una parte entrambi i corti sono edificati sull’idea di un’immagine fantasmatica, ma mentre il collettivo Echo Park sfrutta l’impermanenza e la precarietà dei formati ridotti e di uno sguardo aurorale, gli autori italiani lavorano in un territorio mentale come quello della “fanta-Storia” di Chris Marker. Le rovine di un sito post industriale sulle rive di una laguna sono lo sfondo per il viaggio turistico iperreale di un gruppo di visitatori orientali, l’audioguida che imposta il percorso descrive la memoria di Venezia, dal fenomeno dell’acqua alta fino alla descrizione della città che conosciamo; è un lavoro esplicitamente concettuale, ma realizzato senza che l’idea preceda le immagini, filmate in un modo non dissimile dal cinema di Antonioni o di Wong Kar-Wai nella costruzione di una metafisica dello spazio. Quel luogo può essere una Venezia del futuro, ormai sommersa dalle acque e ridotta alla sedimentazione di alcuni relitti, oppure una terra emersa dalle acque e collocata nella dimensione mitica di un nuovo inizio che coincide con la fine, come l’Ardea laziale narrata da Virgilio, luogo che accoglie una famiglia di Aironi noti come Ardeidi.
E se in questi due corti la famiglia è un’idea che emerge, anche in modo traumatico, dalla necessità di dare un nuovo significato al concetto di collettività, in “La Famille” della tedesca Nina Wesemann diventa il soggetto centrale per raccontare la Tunisia contemporanea due anni dopo la primavera araba; ne viene fuori un ritratto in contrasto rispetto alla convenzionalità con cui i media raccontano il medio oriente, tra disillusione e aspirazioni. Sono tre diverse generazioni a confronto, tutte legate ad un’idea del proprio paese che oscilla tra amore incondizionato e un netto rifiuto del potere costituito; al centro la figura materna che in qualche modo riassume l’evoluzione del ruolo della donna in Tunisia mostrandoci una figura forte e determinante per la coesione del nucleo. La Wesemann costruisce un ritratto corale attraverso un cinema di documentazione rigoroso e attento ai dettagli della vita quotidiana, condividendo uno spazio che non si limita a quello della testimonianza frontale.
Alla descrizione di uno spazio vissuto intensamente come quello della famiglia Tunisina, si contrappone lo svuotamento di quello domestico nel film del cinese Hu Yang Yi. “Leaving with the cloud” racconta di un trasloco mettendolo in relazione con una grande abitazione senza i segni della storia e un appartamento che al contrario contiene tutte le tracce del tempo. Anche in questo caso sono tre le generazioni a confronto, con la figura del vecchio patriarca che dai margini occuperà progressivamente una posizione centrale, da solo in una casa ormai abbandonata, dove la dimensione della memoria coincide con l’inesorabilità del tempo. Il regista cinese, senza caricarli di un significato ridondante, coglie i dettagli materiali, le fotografie, i giochi e i disegni dei bambini, la condivisione della tavola, i vecchi vestiti della nonna conservati in uno scatolone ed infine l’acqua che cade dal soffitto restituendoci l’idea del passaggio dalla vita alla morte.
La famiglia è assente nel notevole Erlösung dell’austriaco Mark Gerstorfer, filmato interamente in multi-soggettiva attraverso i dispositivi connettivi dei giovani protagonisti, tanto che potremmo considerarlo come un diario digitale, il racconto ordinario di un gruppo di adolescenti alla ricerca dello straordinario tra le pieghe del reale. Il punto di vista passa da Andreas, Clemens e Dina ma preme anche dall’esterno, con i video condivisi che la ragazza guarda sul monitor del computer, tutti collegati tra di loro dal contenuto suicidale, vite di cui non sappiamo niente e che si insinuano come frammenti di un flusso virale capace di modificare la percezione del mondo e di confondersi con le stesse registrazioni realizzate dai ragazzi, la cui sostanza è la stessa, un attimo prima di diventare parte di un network connettivo. Gerstorfer sembra non abbicare mai ad un punto di vista esterno, servendosi di uno sguardo ad altezza webcam, di una serie di smartphone, di un occhio che non abbandona mai il suo statuto meccanico e digitale; ne risulta un ritratto emotivamente vicino ai corpi e ai gesti e allo stesso tempo crudele e senza alcuna mediazione poetica ad intralciare la relazione tra registrazione e sofferenza, fino alla terribile immagine conclusiva, che in una sola inquadratura sembra concentrare tutto l’universo di una ragazza, tra simboli e stratificazioni pop, nell’atto più estremo concepibile, quello di specchiarsi nella propria morte.
Sguardo morale – e non moralistico – anche quello del portoghese Bruno Polonso che con il suo breve Ronde ripercorre in forma sintetica e allo stesso tempo espressionista gli ultimi fuochi della dittatura degli anni settanta in Portogallo, circoscrivendola all’influenza della polizia politica in ambito pugilistico e raccontando il legame tra due fratelli, uno pieno di debiti, l’altro un pugile costretto a perdere un incontro per favorire la scommessa truccata di un funzionario di polizia. Polonso sembra riferirsi alla storia del cinema del suo paese, con un riferimento diretto al capolavoro di Fernando Lopes dedicato a Belarmino Fragoso, ma allo stesso tempo se ne allontana realizzando un lavoro volutamente chiuso e simbolico, stretto sui volti, i dettagli, i primi piani e i corpi. La flanerie del film di Lopes, che descriveva la desolazione di Lisbona e degli spazi urbani attraverso il peregrinare del pugile viene sostituita dall’idea opposta, quella di un ring simbolico che si trasforma in una prigione. Polonso, giovane ventiquattrenne, tradisce una matrice letteraria che in qualche modo cita l’hard boiled e le distorsioni espressioniste, ma dimostra una buona capacità di lavorare sullo sguardo, al di là della fascinazione estetica seduttiva che predomina nel suo lavoro.
Sempre dal Portogallo proviene Bestas, il corto diretto da Rui Neto e filmato in una baraccopoli ai margini della vita urbana; Lucas ha solo dodici anni ma è costretto a sopportare l’uomo che abusa della madre; intenzionato a vendicarsi coinvolgerà una sua coetanea, Rita, esponendola a sua volta ad un terribile abuso. Non c’è un barlume di speranza nel film di Neto, tranne forse nello sguardo di Rita e nella sua capacità di rompere la catena di violenze con un abbraccio; la realtà osservata dal giovane regista portoghese è quella di una natura bestiale e indifferente, dove l’identità maschile si rafforza attraverso una linea ereditaria che porta con se solo il gene della violenza.
La perdita delle radici e dell’appartamento dove un uomo anziano ha vissuto gli ultimi anni è al centro di Daughters il film del giapponese Ken Ninomiya; senza più una dimora il vecchio proverà a cercare ospitalità da ciascuna delle tre figlie portando con se Rika, la pianta battezzata così dalla defunta moglie e accudita con amore. Riducendo i dialoghi al minimo e cercando di lavorare sui sentimenti dei personaggi attraverso il non detto, il regista giapponese opera per sottrazione rivelando quel confine sottile tra commozione e comicità attraverso la prova attoriale del vecchio protagonista, la cui forza risiede proprio nel peso di una vita intera, rappresentata attraverso i silenzi e l’ostinazione. Quando arriverà dalla terza sorella, ripudiata per ragioni che possiamo solo intuire, vedrà per la prima volta la piccola nipote; è proprio qui che Ninomiya dimostra notevole controllo dello spazio drammaturgico, elaborando la complessa stratificazione dei sentimenti in campo solo con i gesti, i dettagli e un’organizzazione del montaggio che può ricordare il minimalismo metafisico di Kore-eda Hirokazu.
Anche in Svetlo Crna – Bright Black – dello sloveno Rene Maurin, il rapporto con il passato fa affiorare ferite famigliari mai rimarginate. Un pittore in bolletta ha una profonda crisi, i suoi quadri non vendono e solamente gli incubi sembrano rivelargli una dimensione creativa che non riesce a concretizzare, venderà per questo la vecchia poltrona del nonno. Il sogno, nel film di Maurin, innesca continue aperture con la vita vissuta senza soluzione di continuità, pur elaborando lo spazio di una messa in scena simbolica che condivide molto con la lunga esperienza teatrale del regista; allo stesso tempo la premonizione diventa foriera di false piste, e la presenza di un tesoro nascosto all’interno della poltrona si rivelerà una beffa capace di mandare in cortocircuito il meccanismo di causalità mercantile che incatena la vita affettiva e artistica del pittore.
“Nessuna tribù ha mai vinto senza poeta e nessun poeta ha mai vinto senza tribù“, è un estratto da una poesia dello scrittore palestinese Mahmoud Darwish quella che cita il padre di un poeta nel bellissimo “Rong’Kuchak” del regista indiano Dominic Sangma. Le proprie radici e il trauma della perdita sono al centro anche di questo cortometraggio, ma per Sangma diventano occasione per costruire un suggestivo cinema di poesia che non cerca la poeticità di un simbolismo forzato, al contrario si sofferma sugli epifenomeni naturali, sul pulviscolo, il vento, gli elementi della natura, filmando l’aria e rivelando la realtà come strettamente connessa alla dimensione metafisica. Quando un poeta indiano all’apice della fama si troverà a non disconoscere la propria scrittura proposta in traduzione inglese ad un pubblico più vasto e sempre crescente, questi cercherà nuovamente le origini della sua ispirazione attraverso lo sguardo sulle cose che ancora gli consente di viaggiare nel tempo e nella memoria come se fossero falde compresenti; in una splendida sequenza, mentre fissa un quadro astratto entra nuovamente con un occhio soggettivo all’interno della casa d’infanzia, e sfiora gli oggetti e lo spazio come una brezza di passaggio. Il tempo, nel corto di Sangma, scorre inesorabile, come il ghiaccio che si scioglie in un bicchiere, oppure si condensa e si espande aprendo orizzonti inediti dalla contemplazione delle cose. Il film è ispirato alla figura di Gilbert K. Marak, nonno del regista e poeta originario della tribu Garo nello stato indiano del Meghalaya, conosciuto per il lavoro di recupero della lingua originaria dei suoi avi; una dedica diretta che ne interpreta lo spirito e che viene arricchita da quella esplicita allo stesso Mahmoud Darwish, citato all’interno del film insieme a Rainer Maria Rilke, nel solco di una poesia che attraverso la dimensione del sogno rivela delle aperture invisibili per ri-conoscere il reale.
La relazione tra lo spazio illusorio della scena e quello mobile e sfuggente della vita è l’immagine del dissidio interiore che incendia l’anima del comico nell’australiano “The Comedian” diretto da Iain Bonner. Le parole dell’attore assumono un diverso significato; ripetute nella vita di tutti i giorni fuori dalla dimensione scopica dell’esibizione, generano reazioni diverse e non plasmano il reale come se fosse una platea da sollecitare; quando il comico incontrerà una cameriera cinese, la sua incapacità di farla ridere alimenterà un sentimento di tenerezza diverso, quasi una maieutica dell’essenza performativa: non voglio essere un buffone, dirà ad una platea immobile e imbarazzata, mentre sullo sfondo, la ragazza cinese farà risuonare quelle parole sul suo volto, con un diverso significato.
Nell’enigmatico Otro Dia Mas, coproduzione tra Germania e Argentina, diretta da Anna Thieme, la famiglia come dinamica relazionale è una beffarda messa in scena; un uomo costretto in sedia a rotelle si fa accudire da una giovane donna; quando le chiederà di fargli un bagno, l’assistenza si trasformerà in qualcosa di diverso; la Thieme taglia sul nero e ci fa intuire che lo scambio mercantile va al di là di una prestazione assistenziale, è uno slittamento di senso improvviso che cambia nuovamente prospettiva quando la donna esce di casa visibilmente a disagio dopo esser stata pagata. L’uomo si alzerà in piedi perfettamente in grado di deambulare autonomamente, e si fermerà alla finestra ad osservare l’immagine della gioventù che si allontana; aperto a infinite intepretazioni, il film si chiude con una sospensione del senso che lascia comunque intatta l’idea di un contratto che regola qualsiasi necessità affettiva.
Ed è la satira feroce nei confronti dell’amore raccontato dalle fiabe quella che il giovane triestino Davide Salucci costruisce nel suo breve corto di animazione intitolato “Il principe“, esilarante tour de force sull’identità maschile nella morfologia della fiaba, infilata in un tritacarne e fatta a pezzi. Se il gioco che conduce alla distorsione dei topoi più conosciuti del racconto fiabesco fanno pensare al lavoro di autori italiani come Guido Manuli – pensiamo a “Solo un bacio…” – tecnicamente il lavoro di Salucci riduce il disegno animato ad un minimalismo monodimensionale, citando persino la tecnica Synchro Vox inaugurata dai Cambra Studios per animazioni come Clutch Cargo; divertente e corrosivo, conferma la qualità estetica e tecnica dei prodotti che arrivano al Ca’ Foscari Short Film Festival, anche quando gli autori sono molto giovani come Davide.