Foto di copertina: Alles Wird Gut di Patrick Vollrath
Per parlare del corto d’animazione dell’ucraina Nata Metlukh si potrebbe prendere in prestito l’inciso di una delle più belle canzoni scritte da John Cale: ” Say fear’s a man’s best friend | You add it up, it brings you down“. Fears sfrutta infatti un’intuizione semplice quanto efficace, quella di materializzare le paure come entità tangibili sempre presenti nelle nostre vite; piccole creature nere che vivono quasi parassitariamente attaccate ai corpi degli individui, determinando svolte importanti nella vita di tutti i giorni. Quella che la Metlukh sembra suggerirci è la possibilità di scendere a patti con le proprie paure, considerandole in alcune occasioni come una risorsa. Sorprende, in questo corto di poco più di due minuti, la capacità di recuperare un’animazione essenziale, senza dialoghi, tutta sviluppata a partire dalla deformazione prospettica e da quel movimento incerto e vivo del disegno a mano. La Matlukh infatti, prima di specializzarsi in animazione classica alla Vancouver Film School, ha lavorato come illustratrice freelance; un talento che non si è lasciata alle spalle.
Non ha minore capacità di sintesi l’austriaco Bernhard Wenger che in soli cinque minuti tratteggia il ritratto di Denise, ventenne con un passato difficile e un disturbo della personalità alle spalle, causa dei suoi problemi in famiglia, sottovalutati dai genitori che l’allontanano all’età di tredici anni. Di questo passato in Gleichgewicht (che letteralmente significa “mantenere l’equilibrio”) non c’è traccia se non attraverso le parole della ragazza, perchè Wenger la segue nelle sue frequenti visite al Tagada del Prater, l’attrazione preferita di Denise, che sulla ruota in veloce movimento ama improvvisare piccoli movimenti di una danza personale, mondo temporaneo dove potersi sentire a proprio agio. Del documentario Wenger sceglie quindi l’impostazione soggettiva, quella che si avvicina all’esperienza delle persone, osservate nella ri-messa in scena del vissuto.
Anche Carlos Valle sceglie il documentario soggettivo legato alle storie minime nel suo La Silla de la vida. Se per scelte stilistiche a un certo punto si allontana dalla realtà, il suo lavoro ha più di un punto di contatto con quello di Bernhard Wenger per il modo in cui la percezione di un mondo circoscritto sia in grado di trasfigurare quella della realtà. Carmen e Maria sono due anziane sorelle costrette a casa per problemi di deambulazione, delle due, Carmen si sposta solo appoggiandosi ad una vecchia sedia che usa come stampella per muoversi all’interno dell’abitazione. I ricordi e la vita quotidiana davanti alla televisione scandiscono il tempo e Carlos Valle si serve dei piccoli dettagli ambientali inquadrati come pezzi di mondo, per descriverne il corso. Il regista nato a Toledo riesce con poco a determinare le coordinate di un vero e proprio cinema di poesia per poi aprire le porte alla spagna del realismo magico, con la sedia che prende vita ed esplora il paesaggio campestre al crepuscolo.
Altrettanto vicino ai corpi dei protagonisti, Mio Fratello dell’atriano Simone Bozzelli, che sceglie una forma lontana dal documentario ma non per questo lontana dal documentare un doloroso stato interiore. Stefano, 23 anni, accudisce il fratello Umberto di 16 per supplire all’assenza della madre, impiegata con un lavoro difficile di assistenza agli anziani. La distanza tra i due ragazzi è evidente e mentre Umberto, seguito a scuola da un insegnante di sostegno, cerca in tutti i modi di stabilire un contatto vitale con il fratello, Stefano è quasi sempre assorto e si assume le sue responsabilità con riluttanza. È su questo scarto che Bozzelli costruisce la sua idea di cinema, rimanendo in prossimità dei gesti trattenuti, sottolineando l’importanza degli oggetti, sfalsando il tempo del desiderio rispetto a quello dell’azione. Più del cinema italiano coevo, quello di Bozzelli si avvicina a certo cinema francese, ancora capace di raccontare i sentimenti con i corpi e con i gesti.
È invece più evanescente Miles to Go Before I Sleep della finlandese Hanna Hovitie, che per raccontare la storia nomadica di una ragazza vittima del traffico di minori che dal Congo arriva a Parigi, sceglie immagini dell’assenza. Nel viaggio fino a Makeni e in altre parti del mondo, Deborah assume il nome di Achat durante la sua deportazione forzata; di lei la Hovitie ci mostra un ritratto, come presenza identitaria forte, ma a questo contrappone le immagini derealizzate di Makeni, lo spazio vuoto della strada, un mondo che si allontana nell’ombra osservato dal lunotto posteriore di un furgone. Oltre a queste immagini il corto punta sulla voce di Achat, sul suo timbro e sul suo racconto, mentre lo schermo viene occupato da intermezzi meditativi non così distanti dai siparietti resnaisiani ne L’amour a Mort, dove al pulviscolo indistinto si sostituisce una materia densa e nera, come una nuvola di inchiostro nell’acqua che oscura progressivamente l’immagine. Anche quello della Hovitie, più che un documentario in senso classico, è cinema di poesia per il modo in cui sconnette e disassembla suono e immagine, percezione soggettiva e travelogue, cinema contemplativo e racconto.
Onirico, cupo e disturbante Haunted dell’israeliana Adi Shaya racconta la storia di Aya, tredicenne stuprata sotto anestesia dal suo dentista. Inquadrata dallo specchio del laboratorio, la violenza diventa l’evento centrale di una difficile elaborazione. Tra sogno e realtà la Shaya costruisce una narrazione sinestetica dove anche i suoni del laboratorio si estendono al mondo rappresentato diventando di volta in volta sound design, agnizione violenta o pattern ritmico. In questo senso Haunted, pur mantenendosi saldato ad una realtà rappresentativa riconoscibile, punta più verso la sintesi del film d’arte, contaminato con alcune incursioni nell’horror psicologico.
Il sorprendente Under the sun del cinese Qui Yang selezionato anche al 63/mo Film Festival Accelerator program di Melbourne, e a Cannes 68 per il programma Cinéfondation, è un formidabile esempio di cinema ellittico molto vicino a quello di Jia Zhangke e al modo in cui Hou Hsiao Hsien filma il tempo, ma assolutamente personale nell’elaborazione di una poetica che osserva la vita delle persone come parte di un più grande contesto suburbano. Ogni inquadratura in Under the Sun frappone un filtro architettonico, sia che si tratti degli interni famigliari che dei più grandi complessi abitativi osservati in campo lungo. L’incidente che coinvolge un’anziana signora, improvvisamente caduta alla stazione degli autobus rimane fuori campo, Qui Yang offre un senso all’evento attraverso i racconti del ragazzo che l’ha soccorsa. Esattamente come la famiglia dell’anziana signora, che attribuisce allo stesso soccorritore la responsabilità dell’incidente, la verità rimane fuori campo, così come le vite delle due famiglie coinvolte, rispetto alle quali Qui Yang mantiene una distanza molto precisa, la stessa che non ci consente di comprendere sino in fondo l’origine delle tensioni che stanno vivendo. Come nel cinema di Jia Zhangke ma forse con un procedimento ancora più sottrattivo, Qui Yang racconta una Cina all’ombra di uno sviluppo inquietante e minaccioso, dove la miseria muta rapporti e sentimenti e la violenza esplode dentro un contenitore temporale inesorabile come la vita quotidiana.
Prende il meglio dalla Berliner Schule più rigorosa il corto candidato all’oscar 2016 diretto dal trentunenne Patrick Vollrath. Alles Wird Gut è un dolorosissimo viaggio soggettivo nella giornata di un padre separato. Contro le disposizioni del tribunale e dopo aver passato un bel pomeriggio con la figlia di otto anni, la piccola Lea, l’uomo compie il tentativo estremo di portarla fuori città. Lea si accorge che qualcosa non va e il percorso dal centro urbano fino all’areoporto diventerà sempre più teso. Vollrath sfrutta alcune convenzioni del thriller lasciando fuori campo tutte le motivazioni e concentrandosi sull’azione, ma lo fa seguendo il rigore del primo cinema di Christian Petzold, Angela Schanelec e Thomas Arslan, ovvero con un minimalismo estremo e riducendo i suoni alle sole sorgenti diegetiche. Ed è sorprendente il modo in cui questa fuga si concluda nello spazio dello scontro e del confronto fisico, dove la separazione viene ri-messa in scena senza ricorrere alla parola ma solo ad un gesto oppositivo come quello di un abbraccio che diventa gesto d’amore, di disperazione e allo stesso tempo di violenta coercizione. Vollrath ha una capacità di direzione degli attori davvero sorprendente, come per Qui Yang da lui ci aspettiamo grandi cose in futuro.