Sono numerosi i riferimenti visivi che Todd Haynes e il suo fedele direttore della fotografia, Edward Lachman, hanno messo insieme per costruire la mutazione del punto di vista di Therese Belivet, il personaggio interpretato da Rooney Mara in Carol.
Se il fotogiornalismo newyorchese degli anni cinquanta, selezionato attraverso lo sguardo femminile di Vivian Maier, Ruth Orkin, Helen Levitt ed Esther Bubley è servito ai due autori per ridefinire l’immagine mnestica della città, oltre qualsiasi nostalgia oleografica, questo diventa percepibile con la scelta di girare in Super 16mm per restituire le qualità “antropomorfiche” della grana, come ha avuto modo di dichiarare Lachman in numerose interviste.
Il risultato è del tutto diverso da quegli espedienti che consentono di aggiungerla digitalmente in post produzione, semplicemente perché con il Super 16mm la stessa grana, pur se modificata dal trasferimento digitale, si muove, si comporta diversamente in base alla luce e in qualche modo si accorda al cambiamento emozionale dei personaggi come se fosse un’entità viva e pulsante.
Il punto di vista di fotografe come la Bubley e la Orkin è riconoscibile e allo stesso tempo trasfigurato nelle sequenze dove Carol (Cate Blanchett) e Therese vengono scrutate a distanza mentre cenano in un ristorante, prendono un caffè in un diner oppure la loro solitudine diventa un’immagine nitida negli spazi della casa e in quelli della città.
Ma c’è anche l’arte di un altro fotografo in Carol, del tutto fondamentale per costruire un livello visivo ulteriormente ispirato alla relazione tra schermo e immagine ed è Saul Leiter, l’autore più complesso della scuola di New York, diviso tra pittura e fotografia e più vicino ad alcune intuizioni dell’espressionismo astratto. Il corpus delle sue fotografie a colori fa parte di una riscoperta recente che ha portato alla luce gli scatti conservati nei suoi archivi privati e resi noti negli anni novanta, ventitre anni prima della sua scomparsa.
È quindi evidente l’importanza di quelle immagini newyorchesi per elaborare lo sguardo quasi mai a fuoco di Therese sulla sua identità e sul mondo esterno. Scattate dal punto di vista di un occhio sempre periferico, le foto di Leiter sono filtrate da vetri, finestre e altri ostacoli visivi, dove la condensa modifica la percezione e confonde i colori, rendendo del tutto fluido il rapporto tra rappresentazione realistica e astrazione, prospettive urbane e la trasformazione dei confini dell’immagine elaborati dalla coscienza.
La stessa prassi di Leiter che ottiene colori desaturati, vicini ad un principio di trasformazione in atto grazie all’utilizzo di pellicole scadute, viene reinterpretata da Haynes con l’impiego del 16mm come formato ridotto desueto e sottoposto a successive trasformazioni, sia per quanto riguarda la stampa in 35mm che è stata utilizzata per alcune proiezioni, sia per il passaggio dal 35mm al formato digitale.
Non è questa la sede per approfondire lo scambio mutuale tra pittura e fotografia negli scatti a colori di Leiter e il modo in cui nello spazio visivo viene a crearsi una vera e propria coalescenza tra le linee di quello architettonico e il modo in cui queste vengono modificate, se non cancellate, dall’impermanenza della memoria che diventa sguardo.
Ci interessa capire come i dettagli indeterminati, la sfocatura causata dal movimento ma che allo stesso tempo lo determina, riescano ad individuare quella poetica del riflesso che attraversa tutto il cinema di Haynes, anche quando lo si equivoca come rilettura pedissequa e “perfetta” del melodramma sirkiano.
Quella terra di mezzo tra realtà e astrazione che sembra circoscrivere la fotografia di Leiter più recentemente riscoperta in una dimensione psicologica rispetto alle ambientazioni suburbane e documentali di autori a lui contemporanei come Klein, Frank e Croner consente ad Haynes di entrare nell’instabilità di un sentimento che connette la Storia americana del dopoguerra alle incertezze del racconto intimo e individuale.
Haynes capisce perfettamente che quella di Leiter non è un’immagine vintage, unità semantica di un linguaggio della nostalgia che non gli interessa. Separare un dettaglio dal contesto ambientale come se si trattasse di una facoltà selettiva della visione oppure sfruttare la sfocatura contro qualsiasi idea della stessa che ammorbidisca la visione in una vaga allure onirica, è una ricerca che attraversa tutti i suoi lavori, a partire da Superstar, dolorosa rilettura della parabola di Karen Carpenter, dentro il sistema della famiglia americana di quegli anni e lontano da certa cultura visiva settantiana, ammorbidita dai filtri flou, quelli utilizzati per esempio da Ed Caraeff per l’artwork di Horizon, l’album inciso da Richard e Karen Carpenter nel 1975.
Ad interessarlo c’è quindi la transitorietà della percezione e la rappresentazione dell’illusione attraverso un filtro ottico di precisione quasi empirico-scientifica. La fotografia di Leiter, più che citata viene quindi indagata a partire dalla sua essenza, moltiplicando gli specchi, i vetri riflettenti, le fotografie scattate come quelle che Therese produce durante il viaggio insieme a Carol tra un motel e l’altro, quasi sempre prese a distanza e con un dispositivo che non le consente di mettere perfettamente a fuoco il soggetto.
In questo scrutarsi continuo dei personaggi attraverso una rivelazione fugace dal lunotto di un auto in corsa, da una fessura che consenta di concentrarsi sull’osservazione in mezzo al brulicare quotidiano della vita, da un vetro bagnato che distorce l’immagine, c’è una ricerca dell’invisibile tra le pieghe del reale che rende la ricostruzione Storica di un periodo molto più stratificata dello stesso rigore filologico sulla quale si basa, proprio perché è il punto di vista a riscriverne il senso.
Carol è allora quella stessa essenza, scrutata a distanza nella sua bellezza classica, nel suo essere immagine di una “golden era” anche famigliare, soggetto e oggetto liminale del desiderio perché ancora dentro le apparenze dello sguardo maschile, ma improvvisamente reso astratto dalla neve che cade, de-genderizzato dalla pioggia sui vetri e dall’impossibilità di Therese nel metterla esattamente a fuoco rispetto alla sua vita.
In questo continuo gioco di sguardi Haynes stabilisce una relazione molto precisa tra evanescenza del riflesso e qualità tattile dei gesti. Quando Carol e Therese si trovano nello stesso spazio, prima e dopo la condivisione erotica in una dimensione sradicata da qualsiasi contesto sociale, è il gesto delle mani a definire vicinanza e doloroso distacco. Lo sfiorarsi e la leggerezza del tocco chiudono il senso dell’intero film in un’ellissi dove la mano di Carol si posa dolcemente sulla spalla di Therese con un gesto che nell’espressione di profondo amore, arriva a coincidere con un addio. Haynes ripete lo stesso dissidio emotivo che affligge Laura quando in “Breve Incontro” di David Lean, Alec le tocca la spalla prima di avviarsi verso il treno.
E le mani impostano il dialogo nell’abitazione di Carol; tanto è emotivamente incerta Therese, così la sua versione di “Easy living” eseguita al piano risulta fragile e piena di difetti, ma non frena Carol dall’avvicinarsi a lei per toccarle le spalle ed esprimere apprezzamento. E se la colonna sonora scritta da Carter Burwell, come abbiamo avuto modo di approfondire, veicola più del dolore un senso di sospensione e di vuoto, le note essenziali di quel piano vengono ripetute in quell’esecuzione fragile di cui parlavamo e nella versione di No other love di Joe Stafford, scritta a partire dallo studio No. 3 op. 10 di Chopin. Una qualità pianistica che fa eco al lavoro sulle foto di Leiter e che in forma più astratta recupera il senso di spaesamento emotivo dei personaggi di “Breve incontro”, rappresentato dai frammenti del concerto No. 2 di Sergei Rachmaninoff disseminati lungo tutto il film diretto da David Lean.
Nel percorso di Therese l’immagine di Carol diventerà sempre più vicina e nitida, immersa finalmente in un colore caldissimo. Carol sorride a Therese e ci sorride, prima che l’immagine si chiuda sul nero; è una definizione più netta e identitaria rispetto al corpo martire di Kate Winslet in Mildred Pierce, film attraversato dalla stessa scomposizione dell’immagine nel riflesso. Ma in quel sorriso finalmente tangibile e a fuoco sul quale il film di Haynes si sospende, oltre all’identificazione del punto di vista veicolato da Therese, rimane tutto il mistero di una vita ancora da scrivere e apparentemente assorbita nell’iconografia culturale e politica di quegli anni.
Non è un caso che Haynes sovrapponga la ricerca sull’immagine che abbiamo definito attraverso alcuni aspetti, all’adattamento che Phyllis Nagy ha fatto di “The Price of salt”, il romanzo pubblicato da Patricia Highsmith nel 1952 dietro lo pseudonimo di Claire Morgan e attribuito all’autrice di “Strangers on a train” solamente a partire dagli anni sessanta.
Rispetto al romanzo della Highsmith, ricco di riferimenti culturali legati per lo più a Gertrude Stein e all’analogia tra la lost generation modernista e il contesto creativo in cui si muovono i suoi personaggi, Haynes mantiene solamente alcuni elementi allusivi nei gesti quotidiani re-interpretati dalla Mara e dalla Blanchett: le sigarette e l’alcool come presenza insistente e attitudinale, ma anche un certo immaginario femminile che si scambia pareri sui rossetti, sui profumi, sull’abbigliamento; tutti elementi, a partire dai guanti recuperati, che per Haynes sostituiscono gli oggetti del melodramma o di un noir depotenziato, con i segni di un desiderio altrimenti orientato dallo sguardo maschile.
In questo senso Haynes rende del tutto funzionali i riferimenti alla fonte letteraria, lavorando sull’essenza percettiva più intima degli stessi, quindi con quella fedelissima infedeltà che gli consente di interessarsi maggiormente al gesto minimo, alle abitudini comportamentali, al lavoro sull’immagine e sul corpo delle due attrici piuttosto che alla citazione di un contesto culturale. Questo viene quindi recuperato attraverso gli arredi, lo spazio architettonico e la cura degli interni, una ricostruzione resa improvvisamente viva dal patrimonio visivo che assimila con la ricerca sulle foto di Leiter, come se l’interpretazione del mondo narrativo della Highsmith attraverso questa lente aggiuntiva gli consentisse di eccedere i confini angusti di una scelta altrimenti estetizzante.
La festa a cui partecipa Therese, la coglie improvvisamente al centro di due sguardi, quello dell’ex fidanzato Richard, mentre balla con un’altra donna e quello di una ragazza sullo sfondo mentre la osserva a distanza per poi avvicinarla con esplicito interesse, una volta rimasta sola in cucina (un brevissimo e significativo cameo di Carrie Brownstein, un terzo delle Sleater Kinney).
Nel momento appena precedente all’approccio, uno degli ospiti della festa parla di un conoscente descrivendolo come “uno di quei cialtroni che frequentano il Greenwich Village”. In questo spazio delimitato sempre dagli elementi architettonici, osservato dall’esterno attraverso una finestra, oppure scrutato internamente tra lo stipite di una porta e l’ingresso principale, Haynes sintetizza una mutazione culturale e identitaria in corso senza esplicitarne i riferimenti, ma semplicemente avvicinando la vita di due donne comuni e la loro difficoltà nel trovare un luogo, un’idea, una famiglia, un partito che le contenga e che consenta loro di vivere i propri desideri.
Lo spaesamento di Therese tra desiderio e convenzioni che attraversa tutto il film e che in qualche modo si esprime attraverso l’abitudine a “dire sempre di si”, trova nell’appartamento della festa e in quell’immagine notturna che la inquadra sola, prima ancora di poter contemplare la luce che arriva dal volto di Carol, la soglia per eccellenza, il limen tra essere e non essere.