Casa de Antiguidades è il primo lungometraggio del regista brasiliano João Paulo Miranda Maria. Il contrasto tra la tradizione rituale afro-brasiliana e la violenta colonizzazione globale crea un violento cortocircuito quando Cristovam è costretto a lavorare in una ex colonia austriaca, dove le tracce culturali e politiche del Brasile sono state progressivamente cancellate. Per superare questo spossessamento, Cristovam subirà una trasformazione indicibile.
Casa de antiguidades il film di João Paulo Miranda Maria presentato in concorso al Torino Film Festival 2020, la recensione
Nella ex colonia austriaca dove lavora Cristovam, i segni della tradizione brasiliana sopravvivono ai margini del grande complesso industriale della Kainz. L’azienda produttrice specializzata in latticini, immerge i lavoratori in un ambiente sterile che la fotografia di Benjamín Echazarreta sovraespone con un bianco accecante. Nel primo lungometraggio del regista di Porto Feliz i colori occupano un ruolo fondamentale ed esplodono progressivamente come un rimosso che mostra le insanabili ferite tra nord e sud.
La riappropriazione di un linguaggio radicato nella propria storia, spinge il vecchio lavoratore africano ad oltrepassare i confini di uno spazio indicibile, quello dove il rito prima incorporato, poi defunzionalizzato dal potere coloniale, può nuovamente esplodere con le caratteristiche creative e distruttive che gli sono proprie.
Difficile scorgere elementi esotici o surreali nel film di João Paulo Miranda Maria, molto preciso nel decostruire le tracce del cinema sociale, per avvicinarsi alle configurazioni fisiche e mentali del Candomblé.
La casa circondata dal bosco dove Cristovam trova e accumula oggetti della tradizione rituale afro-brasiliana è un vero e proprio terreiro, ma anche il luogo dove il trauma del passaggio può compiersi, spazio sacrale dove non ci si riunisce per celebrare, ma che accoglie tutti gli elementi di una ritualità soppressa.
La difesa di quei confini e il contatto con gli aspetti più ferini della natura diventa essenziale, mentre la brutalità del razzismo europeo uccide gli animali per dileggio.
Il cane zoppo di Cristovam, torturato e sotterrato da un manipolo di ragazzini crudeli, la mucca che non produce più latte terminata con un abbattibuoi da macellazione al centro dello spazio asettico dell’industria.
Una relazione predatoria con tutto l’esistente, violentemente praticata dopo aver cancellato il ciclo di ordine e disordine nella pratica cultuale.
Alla ricerca di un caos primigenio, Cristovam dialoga serratamente con gli elementi della natura, richiama il suono dei buoi con un grande corno, percepisce figure di un mondo sacro, come la ragazza giaguara che tiene a bada gli avventori del bar con inconsueta furia.
Incorporare queste energie significa sottoporsi ad un infinita generazione formale che accolga transizioni, trasformazioni e inversioni. La prima è una vera e propria vestizione anticipata da “hora de rezar“, il canto che Cristovam assimila prima di riprendere i panni del bovaro dei boschi, un Boiadeiro, figura di passaggio capace di parlare con l’invisibile che domina gli elementi, ma anche residuo di un patriarcato che João Paulo Miranda Maria interroga in modo conflittuale, mettendolo a confronto con le due donne con cui il vecchio lavoratore si confronta.
Mentre si sbarazza degli stivali bianchi forniti dall’azienda per calzare quelli del Boiadeiro, Cristovam sembra acquisire un’autorità che può scagliarsi contro il postribolo europeo. La necessità di fare ordine abita contemporaneamente il tentativo di rifondare un canone e allo stesso tempo il residuo violento che colloca le figure femminili in uno spazio servile.
Perché in “Casa de antiguidades” le due donne acquisiscono una potenza rituale. La madre che seduce Cristovam riconduce l’anziano lavoratore ai sapori del cibo come pratica speziata, gusto perduto e dimenticato dalle mense globali, ma anche gesto religioso, poco prima di fargli assaggiare la fica.
La sequenza del cunilinguus sprigiona un potenziale erotico totalizzante, un trionfo dei sensi come compenetrazione tra carne e terra, bisogno e rito.
La figlia, creatura ferina che sputa, scalcia e vive tra gli uomini tenendoli a bada, suggerisce a Cristovam la presenza del caos come forza distruttiva e allo stesso tempo creativa.
Ecco che la trasformazione in bestia, tra la storia del bue venduto a Goiàs, la sua stessa terra d’origine, e il costume carnascialesco che ne rappresenta la caricatura, salda improvvisamente la realtà mondana con quella sacra.
Il sacrificio della seconda per preservare la prima porta con se gli stessi segni e le stesse incorporazioni mostrate da Claire Denis in White Material. Sono due film opposti, per scelte e metodo, ma raccontano rimozione e nemesi molto simili.
La sovrapposizione di segni nel film di João Paulo Miranda Maria sfiora una dimensione che convenzionalmente definiamo onirica a causa di un retaggio analitico che non ha niente a che vedere con l’esperienza performativa rituale. Le maschere, i suoni curati dal lavoro di sound design, gli oggetti, la presenza ferina impalpabile che attraversa tutto il film, il toro di Goiàs, l’ascolto che Cristovam compie pregando gli orixás, assumono una qualità sensoriale immersiva e allo stesso tempo politica, occupando una posizione polisemica come in Barravento di Glauber Rocha, dove il sincretismo del Candomblé era allo stesso tempo ostacolo e liberazione, valore da preservare e impedimento da superare.
Il rituale spezza l’ordine conosciuto della realtà. Incomprensibile dalle società basate sulla forza muscolare del mercato, è un demone da combattere o una visione da relegare nella dimensione della fantasia o del delirio.
L’occhio di Antônio Pitanga, volto storico del Cinema Novo brasiliano, ci osserva sanguinante da un brandello lacerato della maschera, prima di essere soppresso come un Cristo animista: uomo fatto animale.
Nel Brasile globalizzato le tracce della tradizione sono una forza pericolosa e disgregatrice, per questo devono esser soppresse e cancellate.
Casa de antiguidades (Memory House) – Brasile, Francia 2020 – 87 min
Interpreti: Antonio Pitanga, Ana Flavia Cavalcanti, Sam Louwyck, Soren Hellerup
Sceneggiatura: João Paulo Miranda Maria, Felipe Sholl
Montaggio: Benjamin Mirguet
Scenografia: Isabelle Bittencourt
Fotografia: Benjamín Echazarreta