Che leggerezza non è superficialità,
ma planare sulle cose dall’alto,
non avere macigni sul cuore.
Italo Calvino
Ha l’aria di chi vive secondo quello che scrive, Paolo Civati, autore e regista di Castro, il documentario trionfatore della più recente edizione del Festival dei Popoli.
Lo abbiamo incontrato al termine della premiazione che l’ha visto vincitore del più alto numero di premi del concorso, dalla Sezione Concorso Italiano ai premi di distribuzione, conquistando anche i favori del pubblico che gli ha assegnato il premio MyMovies.
Seconda notifica di sfratto per gli abitanti e gli occupanti di Castro Occupato – Paolo Civati
Una lunga carriera attoriale e autoriale alle spalle, Civati approda dal teatro al cinema con un progetto “contromano e controvento”, come lui stesso l’ha definito, a cui ha dedicato un impegno lungo due anni.
A partire dalla sceneggiatura finalista al Premio Solinas 2014, Castro racconta la realtà di uno stabile occupato a Roma e la frattura di tempo che separa i suoi abitanti dal giorno dello sgombero.
Certo, far coincidere il giorno del saluto al mondo di Fidel Castro con la proiezione di un film che porta lo stesso nome avrebbe potuto essere la più grande azione di marketing della storia, ma Paolo Civati dichiara di non avere avuto influenza sulle vicende cubane e abbiamo deciso di credergli.
E gli scherzi potrebbero finire qui, data la gravità del tema trattato, se non fosse che proprio dello scherzo, della leggerezza il film ha saputo fare la chiave d’accesso a una regione emotiva ben più vasta, irriducibile alla pretesa sicurezza di non essere toccati dalle difficoltà che gli occupanti di Castro stanno attraversando.
E’ al suo primo film, Paolo Civati, ma non si direbbe, tanta è la precisione delle sue scelte di regia e la pertinacia con cui ha creduto a una possibilità di narrazione che sapesse dire la meraviglia della vita anche quando la paura ne lambisce i muri di protezione.
Ecco allora come il racconto di un’occupazione diventa sfida all’ovvio, alla retorica, a una tipologia di indagine ormai sedimentata nelle forme dell’inchiesta televisiva e dei suoi ruoli definiti, riconoscibili. Diventa una sfida alla diffidenza degli stessi occupanti-attori che chiedono di dar volto a uno strumento capace di incidere l’enfiagione della loro miseria, ma a cui credono meno che alle lotte dei vari comitati per il diritto alla casa. Ha dovuto combattere per difendere la sua ricerca di un nuovo linguaggio, Paolo Civati.
Fuori ci sono i picchetti, i cassonetti incendiati, le barricate sulla tangenziale e uno sgomento che non rimane certo ai margini dell’inquadratura, ma la scelta è quella di andare più a fondo, di superare l’incertezza legata ad una situazione che vorremmo straordinaria per raggiungere quella regione esistenziale dove spettatori, occupanti e politici firmatari di destini partecipano della stessa umana inquietudine. Ogni giorno.
Civati racconta le difficoltà emerse durante le riprese, risolte ricorrendo alle stesse tecniche apprese in teatro, nella relazione con gli attori: “Ho capito quelli che erano gli inneschi drammatici fra queste persone e dopo aver assegnato loro compiti incrociati, di nascosto, rimanevo ad osservare. Pura osservazione, senza interviste, per non rischiare di dilagare nel pathos”.
Ed ecco allora, che quello che rimane, sullo schermo, è il coraggio di chi trova la forza di ridere dal fondo di una situazione disperata, perché imbandire una tavola e trasformare l’addio in una festa, anche di fronte alla voragine che si sta per dischiudere, significa riscattare alla disperazione il tempo che ci appartiene, qualunque sia lo scenario in cui ci è dato di viverlo e le boutade, le risa, i baci scambiati sull’orlo del disfacimento appaiono in tutto il loro vigore di atti di resistenza non all’imminenza dello sgombero, ma all’impermanenza stessa della vita.
Gli occupanti di Castro ‘non sono affatto figurine pastorali, contrite, tutte lacrime e fatalismo’, come recita la sinossi del film, ma ‘piccoli, grandi combattenti’. Alcuni di loro hanno il dono della leggerezza, altri lasciano che il nero affiori altrimenti. “Ho calibrato le diverse storie, componendole in un quadro che trasmettesse quanto più possibile la sensazione di cinema, prestando grande attenzione a realizzare una fotografia accurata e una colonna sonora originale, composta da Valerio Camporini Faggioni.”
Sullo schermo alcuni protagonisti hanno voluto fissare momenti importanti come la prima telefonata al padre che non si conosce da parte di un giovane uomo o l’intimo disarmo di chi si sveglia al mattino sperando che sia già la sera di un giorno trascorso senza ferita: “temevo che i protagonisti sarebbero rimasti delusi del modo in cui li avevo raccontati” dice ancora Civati “perché è il rischio che si corre nel toccare una cosa fragile come la vita degli altri. Invece per fortuna, a loro dire, non è accaduto.”