“Do I dare
Disturb the universe?
In a minute there is time
For decisions and revisions which a minute will reverse“
(T. S. Eliot – The Love Song of J. Alfred Prufrock)
C’è una densissima qualità aurale nel nuovo film di Quentin Tarantino e non mi riferisco al consueto livello metadiscorsivo affidato alle scelte musicali che costituiscono la colonna sonora. Il mixtape “professionale” che dai film del regista americano viene ricostruito per il prodotto discografico, da sempre fa reagire in modo combinatorio frammenti di dialogo con l’attacco dei brani, creando una vera e propria espansione. Una playlist che diventa palinsesto e affida nuova valenza ritmica e musicale a quelle parole.
Il riferimento è alla narratività dei supporti tradizionali rispetto alla randomizzazione dell’esperienza d’ascolto “nel cloud”, ma in “C’era una volta a….Hollywood”, la riorganizzazione del frammento contamina tutto il film attraverso la presenza costante di advertising radiofonico e televisivo; un assalto auditivo che diventa continua collisione percettiva e temporale. L’iconologia del cinema è un relitto spinto ai margini, come lo schermo del drive in visto di sbieco, mentre domina l’area dove Cliff Booth risiede nella sua roulotte.
Da quella proiezione, fuori campo arriva altro advertising, con il motivetto che introduce le “prevues of coming attractions“, già dentro Grindhouse a tutto schermo e parte di un cluster più ampio, nel film più astratto del regista americano, nonostante le apparenze. Nell’angusto abitacolo la televisione è sempre accesa e vomita sigle, frammenti di alcune serie, simulacri di un immaginario cinematografico di seconda mano già fagocitato dal piccolo schermo, nell’anno in cui l’estromissione della realtà dal prime-time sta per finire, con l’incorporazione di tutti i traumi della Storia recente che trasformeranno i palinsesti di CBS e NBC.
Lo diciamo da tempi non sospetti: la lettura cinefila di Tarantino che incornicia e ipostatizza l’amore del regista per la sua collezione di farfalle, non ci interessa né rappresenta il “punctum”, inteso come livello di intensità emotiva, che nei suoi film si crea tra immagine e desemantizzazione dei piani del “reale”.
Non si tratta di negare la vertigine di un testo che si nutre di quella cultura, chi lo fa dimostra la stessa ingenuità un po’ anale dei custodi del Culto, ma di cogliere nei segni i semi di quei luoghi della differenza che si aprono ad un cinema eminentemente politico e filosofico. Lo dicevamo riguardo al “finto” Kammerspiel di Hateful Eight, per l’abbinamento di un formato magniloquente alla riduzione cameristica dello spazio, ma anche in relazione a Django Unchained e Bastardi Senza Gloria, a proposito dell’ “infiammabilità” delle immagini, nella relazione palindroma tra menzogna e verità.
Del cinema rimane una sala vuota durante un matinée, con una stella che stenta a farsi riconoscere e il paesaggio che sembra riflettere i generi dal lato del crepuscolo, mentre la semantica televisiva cerca di mantenere al centro un sogno ancora radicato nel decennio precedente, come nella parabola tragica di Rick Dalton.
Bruce Dern, attore chiave della New Hollywood, che nel 1968 aveva interpretato The Seeker, il predicatore nomade di “Psych-Out”, il “mostruoso” film di Richard Rush sulle controculture, assume il senso di questo passaggio dal sogno all’incubo incarnando quasi filologicamente la figura di George Spahn, il proprietario del movie ranch di 55 acri, situato ai margini della vasta area metropolitana di Los Angeles, luogo di cinema e televisione, successivamente occupato dalla famiglia Manson. Ottantenne e quasi completamente cieco nel 1969, viene stordito a sesso e droga mentre passato e futuro sembrano collidere all’interno di una dimensione paesaggistica che da sola mostra la natura ciclica del tempo.
La paranoia con cui le vecchie generazioni osservano allo specchio quelle emergenti, connette il potenziale distruttivo del futuro agli orrori sepolti tra le pieghe della Storia. Tarantino lo ha confermato con altre parole e in modo più diretto nel podcast di Pure Cinema, pubblicato lo scorso luglio, motivando le paure di un personaggio come quello interpretato da Leonardo Di Caprio in termini generazionali.
Se in “Death Proof” i residui materiali della cornice cinematografica, dalla qualità aptica e molecolare della grana, fino agli improvvisi “dropping” dell’immagine, annullavano l’estetica “vintage” per favorire un discorso più complesso sulla leggibilità illimitata del testo, in “C’era una volta a….Hollywood” è la qualità sonica del film, come dicevamo all’inizio, ad innescare questo disorientamento percettivo che esce dal solco della ricostruzione di un periodo, per entrare nel mistero della Storia con la forza dirompente e demoniaca di un presagio.
Poco prima che Rick rincasi per un’ennesima notte alcolica, l’autoradio della macchina condotta fino a Cielo Drive dal fidato Cliff, trasmette la pubblicità di una nuova produzione della Warner. Il film è “L’uomo Illustrato“, diretto da Jack Smight nel 1969 e adattato dallo stesso insieme ad Howard Kreitsek a partire da alcuni racconti di Ray Bradbury. Interpretato da un Rod Steiger tempestato da tatuaggi in ogni parte del corpo, viene introdotto dalla voce di Claire Bloom, un avvertimento sui pericoli della visione: chiunque si trovi a scrutare o interpretare i segni del futuro, si troverà ad affrontare eventi che non possono essere spiegati nel tempo presente.
La pubblicità trasmessa dall’autoradio di Rick dischiude la stessa forza, risuonando nel crepuscolo di Cielo Drive: “Non devi guardare l’uomo illustrato. Sulla sua pelle ci sono immagini spaventose. Ma quella più terribile di tutte è tatuata sulla sua anima“. Lo speaker conclude definendo l’esperienza come una “twilight zone” dell’immaginazione, mentre un presagio di morte si spande sulle colline di Hollywood.
La suggestione agisce con la conoscenza di massa, ma anche attraverso la rimozione della figura di Charles Manson dal film di Tarantino, una sostituzione possibile per l’impalpabilità del personaggio, trasceso dall’idea di violenza che lo precede, lo comprende e lo segue. In che modo e quando possiamo dire di essere testimoni del tempo? La domanda attraversa tutto “L’uomo illustrato”, film controverso, confusionario, rifiutato dallo stesso Bradbury e dalla critica, ma assolutamente vivo nel raccontare un violentissimo scontro generazionale in atto.
Mentre il corpo del vecchio Carl sopporta i segni di una Storia che attraversa tutta la curvatura del tempo tra immagini di morte e annientamento apocalittico, il giovane Willie ne osserva trasformazioni e presagi, fino al rispecchiamento della propria fine in un tassello di pelle ancora “opaco” che apre lo sguardo alla possibilità di scriverne l’esito . L’inseguimento conclusivo tra Carl e Willie sospende la definizione del destino in una lotta tra bene e male che non presenta alcun valore assegnabile.
Quel tassello cieco nel film di Tarantino emerge dal contrasto o dalla convergenza di elementi diversi, aurali, visivi, colorimetrici.
Può ospitare qualsiasi segno, inclusa la cannibalizzazione delle controculture nel maelstrom massmediale, come inizio di una progressiva immunizzazione verso l’uniformità del “canone”. Ecco che la riscrittura della mattanza mansoniana è qualcosa di più di un gioco combinatorio o di una declinazione superficiale di tardive applicazioni “post-moderne”, perché re-immagina la resistenza di due narrazioni contrapposte attraverso la definizione della Storia “oltre i limiti esterni” di qualità empirica. Fantascientifico e crudo come in “The Outer Limits“, Tarantino non si riferisce mai ad un mondo di fantasia chiuso nella sola fruizione cultuale, ma apre al contrario spazi nuovi di riflessione problematizzando la percezione del tempo. La sua è una concezione dinamica della storia che si appella alla conoscenza e al desiderio.
Nella violenza gore che riscrive il delirio di due generazioni osservate dai lati opposti di uno specchio, il regista americano sembra scorgere l’horror vacui di un presente ancora più spaventoso, lo stesso che William Peter Blatty incarnava nella figura di Kane quando ne “La Nona configurazione” abuso e sacrificio, apocalisse e riscatto convivevano senza risposte nell’unico spazio della follia.