La rifondazione della Storia passa attraverso la rifondazione dello sguardo, dicevamo una cosa simile dopo aver visto Meek’s Cutoff.
Quello che accade entro l’orizzonte visivo dell’inquadratura nel cinema di Kelly Reichardt è quasi sempre un gesto, un movimento, un compito da svolgere, l’attraversamento di uno spazio senza che l’approdo ne assorba potenzialità e significato. Per la prima volta la regista americana non condivide la scrittura con Jonathan Raymond, suo collaboratore fin da Old Joy, partendo dai racconti di Maile Meloy, la cui densità descrittiva nello spazio del paesaggio diventa occasione per scarnificare i dettagli, ridurre all’essenziale il rapporto tra personaggi e sfondi e sopratutto azzerare la parola.
Per recuperare tutta la potenzialità del gesto e del movimento, molte delle sequenze di Certain Women sono state girate in prima istanza senza dialoghi, cercando di capirne la necessità a partire dal percorso degli attori e dal tempo della sequenza.
Il suono del silenzio diventa allora l’elemento più importante per definire lo spazio, mentre la lontana voce radiofonica di Joe Puleo, amico della Reichardt e conduttore di una trasmissione per una radio di Benton Harbor nel Michigan, fa da collante per una comunità apparentemente dispersa, quasi fosse il residuo di un rituale sociale in via d’estinzione ma ancora presente al di fuori della modernità liquida.
A Livingston, nel Montana, quattro donne vivono la loro autonomia circondate dalla vastità della natura. A legarle è semplicemente la scabrosità del paesaggio, in uno spazio convergente tra western e road movie, dove il movimento è quasi sempre sospeso, come in Night Moves, perché trattiene la tensione, sospende le aspettative, vanifica le opportunità oppure si illumina della luce di una rivelazione sul volto di una delle quattro attrici, mostrando improvvisa empatia più nelle possibilità dello sguardo che nella solidità del racconto.
C’è una consistenza quasi pittorica in Certain Woman, una semplificazione radicale delle forme, di ispirazione pre-modernista come nei dipinti di Milton Avery oppure nei parcheggi di Stephen Shore; improvvisa emersione del brutto nello spazio naturale.
È l’unica connessione che lega i personaggi, ad eccezione di un’adulterio che rimane quasi fuori campo come evento marginale e che rappresenta il segno di una tensione invisibile, un desiderio inespresso e soffocato, come quello della proprietaria del ranch (Lily Gladstone) mentre osserva silente l’avvocato Elizabeth Travis (Kristen Stewart) persa nelle sue ansie centripete.
Quando Laura (Laura Dern), legale del signor Fuller (Jared Harris) conduce l’uomo da un suo collega, questi dirà al cliente che nonostante il torto subito dalla sua azienda, non ci sono i presupposti per procedere in via giudiziale. Fuller accetta di buon grado quello che Laura sta cercando di fargli capire da mesi, senza aver ottenuto una sola volta l’ascolto attento dell’uomo. Il peso dello sguardo maschile che delegittima quello femminile viene rivelato dalla Reichardt con uno scarto quasi impercettibile, una dimensione dolorosa che si trasformerà in comprensione materna e che in qualche modo imposta il tono di un film che procede lungo una serie di scarti dello stesso tenore.
Le pietre di un muro di cinta abbattuto, modellate sulle risorse originarie del luogo, separano Gina (Michelle Williams) da Albert (Rene Auberjonois), il proprietario del terreno e di quelle pietre, nello spazio di un bellissimo controcampo tenuto insieme, in termini di significato, da una percezione simile delle proprie radici, la stessa che è motivo di un contrasto tra i due, mai compiutamente espresso.
Il desiderio della proprietaria del ranch nei confronti della Travis trova una momentanea sintonia nella necessità dell’avvocatessa di essere ascoltata e protetta in una città notturna e sconosciuta, entro lo spazio circoscritto di un parcheggio e di un diner.
Quella sintonia, di giorno e in un parcheggio simile, verrà infranta.
La Reichardt elabora il contrasto tra i segmenti narrativi attraverso una poetica degli spazi (aule, parcheggi, diner, improvvise distese naturali) frapponendone di simili oppure opponendo chiusure e aperture dell’orizzonte visivo, come nella ripetizione ossessiva di un motivo fordiano che pone sempre al centro l’attesa femminile, ma nella conquista di uno spazio solitario e autonomo che in quella stessa attesa trova piena realizzazione. Non c’è salvezza né dannazione, persistono solamente i gesti di una straordinaria Lily Gladstone circondata da un cane e da alcuni cavalli. Il paesaggio si spalanca luminoso dal ventre oscuro degli interni, quello del ranch che non vediamo distintamente e che fa da cornice all’immagine, mentre la voce radiofonica di Joe Puleo trasforma l’immagine dello spazio in quella del tempo.
Nell’idea della stessa Reichardt che il suo cinema e la realtà che ha spesso osservato dall’abitacolo della sua macchina, sia sostanzialmente un road movie, è escluso il senso dello stesso come grande viaggio, percorso di formazione, partenza e approdo. Il viaggio, in Certain Woman è colto nel momento in cui l’azione è soggetta a sospensione, non tende mai verso un obiettivo e molte volte torna indietro o gira a vuoto.
Le macchine nei parcheggi, il cavallo che sostituisce il camion improvvisamente guasto, e sopratutto le rovine sul terreno di Albert, diventano parte integrante del paesaggio, un contrasto tra artificiale e naturale che sospende il tempo in virtù di una persistenza temporanea. Le pietre sul terreno in particolare, connettono il passato della tradizione, al presente del loro stato come rovine, fino al futuro immaginato dallo sguardo intenso di Michelle Williams, nella desiderata costruzione di una nuova casa, una temporalità verticale a cui si sovrappone quella orizzontale che interessa visivamente alla Reichardt e che integra semplicemente il manufatto artificiale al paesaggio naturale, come in certe “rovine” di Rauschenberg o nelle sconnessioni spaziali della scultura di Julian Schnabel.
La quattro donne della Reichardt sono colte nella loro fragilità e contingenza, quando il flusso della vita quotidiana apre e richiude impercettibili cicatrici.