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Cette Maison di Miryam Charles: recensione – Journées du cinéma québécois en italie 2023

In Cette Maison, tempo e spazio vengono attraversati in ogni direzione, per evocare una storia matrilineare che diventa il prisma dal quale viene proiettata l'idea di casa come luogo di negazione e allo stesso tempo di rifondazione; spazio immaginale attraversato dall'occhio oppure luogo fisico, ricreato dal tatto e dal corpo. Il primo, splendido lungometraggio di Miryam Charles, apre oggi la 20/ma edizione delle Journées du cinéma québécois en italie. La recensione

Nel suo vorticoso lavoro di reinvenzione dei materiali mnestici, Miryam Charles sonda un frammento di vita personale per lavorare sulla fusione tra la natura effimera dei fatti e la persistenza di tutte le tracce possibili, evocate dalla reazione tra sentimenti ed esperienza.
Il suo è un cinema che sposta le funzioni del racconto e la ricerca storiografica nello spazio combinatorio della poesia.

C’è un grado di iconicità radicale in Cette maison, per il modo in cui gli elementi in gioco, incluso quello determinante della parola, puntano alla costruzione di un’immagine a partire dal proprio modello semantico. Ma l’aspetto più evidente non è quello più importante.

Girato per scelta in 16mm, si serve di un formato con una connotazione specifica, per rimettere in scena una riflessione sulla volatilità della memoria senza affidarsi all’estetica del ricordo. Al contrario, è interessata alla granulosità particellare del supporto, ai salti ex abrupto da un segmento all’altro, alla visibilità dei frammenti di giunzione. Questo le consente di ampliare la qualità dello sguardo e di spostarne l’intensità sulle potenzialità di un’arte multisensoriale. Tattilità che coinvolge la prassi analogica, ma che incide sul film stesso sangue, fluidi corporei e una fisicità che lotta incessantemente con il regime temporale, attraversandone falde e interstizi con la forza di un rabdomante che fa dialogare l’invisibile con la materia.

La rievocazione dell’atroce delitto che spegne la vita della cugina appena quattordicenne, creduta morta suicida in un primo momento, rimane fuori campo come dolore indicibile a cui contrapporre la presenza di colori, odori e sapori di un’identità culturale che rilegge la perdita alla luce di quelle radici Haitiane che hanno determinato il percorso di Charles fino al Canada francese.

Tempo e spazio vengono attraversati in ogni direzione, per evocare una storia matrilineare che diventa il prisma dal quale viene proiettata l’idea di casa come luogo di negazione e allo stesso tempo di rifondazione.

È quel processo che nel lutto segna il passaggio dallo scavo interiore alla fabulazione, per proteggersi dalla morte con gli artefatti di cui possiamo disporre, incluse le fotografie e l’immagine filmata. La posizione della propria identità e del proprio corpo, viene allora tradotta attraverso un dispositivo poetico che mette in gioco tutto quello che non è possibile registrare dei sensi.

Si ascoltano allora i fantasmi, costruendo uno spazio dove possano tornare non solo dalla morte, ma anche dall’oblio causato dalla dislocazione culturale e identitaria.
Non è allora possibile stabilire dove siano realmente la cugina e la madre e soprattutto chi siano, nell’avvitamento di una storia osservata dall’esterno con quel ripopolare tracce e persone di un’esperienza interiorizzata.

Il Cinema per Miryam Charles è evidentemente un transito irrisolto tra visibile e invisibile, occhio e tatto, anche nell’impiego materiale del set, la cui ricostruzione di interni ospita corpi e parole, con-tro la forza disgregante di un paesaggio Haitiano remoto, dove la casa è una rovina che persiste nel rumore bianco della pellicola.

Ecco che i fiori, il cibo e la materialità stessa della scansione fonetica, emergono come elementi di un cinema fortemente aptico, che si sposta dall’aurale al corporeo per introdurre un tentativo, certamente disperato, di situarsi individualmente e politicamente nello spazio comunitario.

Schelby Jean-Baptiste non ha la consistenza di un fantasma, per quanto occupi quella posizione, perché Charles, attraverso il medium attoriale, cerca di restituire alla cugina Tessa una parola che appartiene anche ad un altro da sé oppure al sé della stessa autrice. Lo spettro nasce allora da questa relazione della materia con l’invisibile, è sempre presente anche se non c’è più, se non è mai esistito o se ancora deve abitare quella condizione.

La rivisitazione, consente una nuova organizzazione concettuale del passato dove l’evocazione di un’identità invisibile che si trova al di là dello spazio occupato dall’essere, può essere immaginata come pregna della possibilità immanente di trasformarsi in qualcosa di diverso da ciò che conosciamo.

Nello spaziotempo evocato da Tessa, tutto è possibile, anche riavvolgere gli eventi ed assegnare ad oggetti e ninnoli il ruolo di cancellare il passato, per indicarci un altro futuro.

Cette Maison di Miryam Charles (Canada 2022, 75 min)
Interpreti: Schelby Jean-Baptiste, Florence Blain Mbaye, Eve Duranceau, Mireille Metéllus, Matthew Rankin, Yardly Kavanagh, Nadine Jean, Tracy Marcellin
Sceneggiatura: Miryam Charles
Fotografia: Isabelle Stachtchenko
Montaggio: Xi Feng
Musica: Romain Camiolo

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Voto
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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