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Ceux Qui Travaillent – Those who works di Antoine Russbach: la recensione

Antoine Russbach arriva al lungometraggio dopo un corto e la partecipazione ad un progetto collettivo (Avant-terme).  Il regista ginevrino si affida al volto immutabile di Olivier Gourmet, attore feticcio dei Dardenne e prosegue la sua personale analisi antropologica sul mondo del lavoro, introdotta con il film di 22 minuti intitolato “Les bons garçons”. Dal brodo di coltura che alleva i giovani economisti ad affrontare il contesto aziendale, lo sguardo di Russbach si sposta alla fine di quello stesso processo formativo. Se nel primo corto ad essere al centro di due possibili scelte è la scuola di economia e le modalità con cui questa avvia i giovani discenti ad un progressivo distacco dalla complessità delle relazioni umane, nel suo nuovo lavoro Russbach si pone gli stessi interrogativi in un momento in cui il lavoro si è ormai sedimentato come modello che regola e sostituisce l’intensità di tutti i rapporti.

Frank regola ogni istante della sua vita con la precisione di un cronografo. Sposato e padre di sei figli, ogni giorno incarica la minore, la piccola Mathilde, di portare il caffè a letto a tutti i componenti della famiglia, mentre ne segue meticolosamente le prime azioni del mattino. L’educazione alla vita passa dall’attitudine al lavoro, senza il quale non è concepibile alcuna forma di esistenza. Il dialogo che Frank instaura con i figli è simmetrico rispetto al suo incarico come responsabile delle vendite di un’influente ditta d’importazione. Non esistono tempi morti nè la dimensione del dialogo, perché l’empatia viene progressivamente svuotata dalla funzionalità delle azioni e dei gesti che concorrono alla realizzazione di un obbiettivo.

Fuori dal recinto di sicurezza dell’ufficio, Frank non stacca mai, continuando ad utilizzare i dispositivi di condivisione “a tempo pieno”, per disporre, scegliere e prendere decisioni importanti. Una di queste, la più difficile della sua vita, ma sostanzialmente in linea con il lavoro sporco che ha sempre svolto con abnegazione, lo mette di fronte ad una terribile scelta etica. Un migrante clandestino, minorenne e probabilmente a rischio ebola, si è infilato sulla Cervantes, il cargo che dalla liberia sta arrivando verso le coste occidentali con un carico di massima importanza per gli affari dell’azienda. La fedeltà di Frank gli impone scelte ai limiti della corruzione e della disumanità. Il suo gesto, fatto per gli interessi di chi lo comanda, sarà l’alibi per un licenziamento coatto.


Frank si troverà improvvisamente senza lavoro, pedina della sua stessa compulsione, con l’ossessione di riempire quella voragine che si è improvvisamente spalancata nella sua vita.

Russbach parte dagli stessi presupposti del Cantet de “L’emploi du temp”, lasciando ai margini la riflessione sugli effetti globali del capitalismo contemporaneo, senza affidarla ad un personaggio specifico.

Frank vive lo stesso dramma di Vincent e in un primo momento lo affronta con lo stesso spaesamento. A differenza del personaggio scaturito dalla penna di Robin Campillo, cerca di ritardare con ostinazione la sospensione del tempo. C’è in questo senso uno slittamento di spazi e luoghi. Russbach, pur evidenziando la freddezza di una Ginevra divisa tra uffici asettici e interni famigliari mai veramente “vissuti”, si sofferma su quest’ultimi nel momento in cui cominciano a creare un cortocircuito con chi li abita. Rispetto agli spazi defunzionalizzati della condizione postmoderna (parcheggi, autogrill, snodi urbani, stazioni di servizio) battuti da Cantet, Russbach non separa la famiglia dal suo personaggio, ma elabora il sentito ritratto di un uomo che rintraccia le radici dell’empatia come se fosse lo sviluppo di un trauma.

Cinema rigoroso senza l’alibi dello stile, mantiene lo sguardo in una posizione analitica evitando di caricare il senso degli eventi, ma al contrario affidando tutto al gesto e ai volti.

Sono i gesti di Frank a perdere di senso in uno spazio per lui alieno, quello del confronto affettivo. Un cellulare che non serve a svolgere un compito professionale è inutile e va distrutto; il benessere raggiunto perde peso e la contemplazione di una piscina alimenta il senso di vuoto restituito dalla persistenza dei beni materiali.

A dispetto del team di psicologi del lavoro che cerca di reintrodurre uomini disperati in un contesto che li vuole allineati con una serie di skills basati su efficienza e distanza, il volto impenetrabile di Frank cambia postura solo mano a mano che la vita con le sue sfumature si avvicina all’esperienza.

Il rapporto con la piccola Mathilde è la chiave attraverso cui Russbach ri-vede gli spazi della catena lavorativa con la luce dello stupore e della meraviglia. La curosità della piccola nei confronti del lavoro del padre proprio quando questo non ne ha più uno, offre un nuovo significato al senso dell’impegno e del sacrificio, mentre l’improvvisa sovrapposizione con l’attracco della Cervantes, così come il confronto diretto con i marinai che la gestiscono, diventa un impressionante ritratto sulla dimensione umana del lavoro; la qualità del tempo, aspetto quasi impalpabile nel film di Russbach, viene trasmessa mediante quella del gesto. Lo sguardo risiede nel mezzo e torna ad essere una questione di libertà.

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