Ne “Il vuoto di Dio è Dio medesimo” parlavamo della consapevole desertificazione artistica ed estetica di Sufjan Stevens, con lo sguardo rivolto verso l’abisso e uno specchio che riflette la propria morte senza alcuna scorciatoia simbolica. Vuoto di ricordi condivisi, vuoto di storia, vuoto di momenti vissuti nella ricostruzione disperata del volto della madre. Questo stesso spossessamento dall’immagine emerge con incredibile forza dal minimalismo di “Visions Of Gideon“, uno dei tre brani originali scritti dal musicista americano per il film di Luca Guadagnino e collocato sul piano sequenza conclusivo. Il volto di Timothée Chalamet contratto dal dolore cerca di attraversare lo schermo mentre le liriche di Stevens giocano con le parole Video e Gideon, indicandoci il crinale tra immagine e memoria, amore e idolatria, in un avvitamento tra digitalizzazione dei ricordi e il complesso riferimento alla figura di Gedeone, esca per altri significati rispetto a quelli direttamente biblici di cui il cantautore di Detroit si serve spesso, con intenti polisemici.
Eppure, questa sovrapposizione tra verità e falsificazione, dove ci si chiede se il ricordo sia stato davvero vissuto o semplicemente registrato come traccia su un supporto artificiale, toglie il fiato grazie a quella commistione inscindibile tra “elettronica” e elementi acustici già tecnologizzati presente in tutta l’ultima produzione di Stevens, sorprendendoci al centro di quest’ansia d’amore, mentre cerchiamo una connessione con lo sguardo di Chalamet, la cui persistenza è un artificio esplicito che non scolpisce il tempo né comunica alcun sentimento se non quello opaco di un’immagine senza alcuna tridimensionalità, superficie impenetrabile che non riflette e non ci risponde, rivelatasi ex-abrupto.
“Insulare” come A Bigger Splash, Chiamami col tuo nome cerca di cogliere lo scarto tra desiderio e appagamento nel peregrinare a vuoto dei suoi protagonisti, lungo i percorsi palustri di Moscazzano, allusi da un’atmosfera sospesa e mai veramente mostrati, attraverso una morfologia del movimento che nelle intenzioni vorrebbe essere bertolucciana, in quella ricerca di un orizzonte che si scopre improvvisamente sottratto alla vista. Perdersi e perdere il filo della narrazione nel movimento incerto dell’esperienza, recuperando la formazione documentaristica che emergeva nel film precedente con una serie di segmenti molto simili, dove la manualità rituale del lavoro sembra penetrare e spezzare il flusso del racconto.
Non vogliamo parlare di sentimenti né di leggerezza, perché nonostante la luce di Sayombhu Mukdeeprom, la coproduzione e la scrittura di James Ivory sembra recuperare i riflessi delle produzioni condivise con Ismail Merchant, dove la qualità fenomenica veniva sostituita dalla pesantezza di una pittura immaginale e artefatta del sentimento nostalgico.
E mentre “Chiamami col tuo nome” svuota un’immagine dietro l’altra, alla ricerca di una flagranza già compromessa dall’eccessivo carico culturale e semantico, proprio nel 1983 Jean Becker realizzava L’été meurtrier, film stratificatissimo che sotto la luce di un’estate nascondeva il ritratto impietoso della provincia e di un intero decennio; un’immagine dentro l’altra.