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Cinderella di Kenneth Branagh – Berlinale 65 – Fuori Concorso

Kenneth Branagh tra Disney e Perrault sceglie il suo amore per il cinema classico, dal Noir al musical, da Powell & Pressburger a Marlene Dietrich, dal Technicolor a Pollyanna, dalla fiaba a Shakespeare, ma questa volta invece di strafare, mantiene la dimensione magica e originaria della fiaba

Kenneth Branagh raramente ha dimostrato senso della misura; non che gli sconfinamenti ci spaventino, ma l’ossessione auto-celebrativa e l’allure del genio sopra ogni cosa hanno attraversato buona parte della sua filmografia, raffreddando molto spesso l’intensità dei suoi progetti e minandoli alla base con una scopertissima tendenza enciclopedico-cinefila; un film come “L’altro delitto” per esempio, secondo del regista inglese realizzato nel 1992, affascinante e gelido allo stesso tempo, nonostante la produzione di un uomo di cinema solido come Sidney Pollack, pescava a piene mani da Welles, Hitchcock, il Noir classico americano e il solito Shakespeare, cercando un contatto visivo eccessivo con le fonti originarie, replicando angolature inconsuete, impostazioni stilistiche, illuminazione, decor, con quel piglio ipertrofico di chi è incapace di allontanarsi dai modelli di riferimento, retorica nostalgica inclusa.

Questa tendenza al florilegio sembra arrestarsi solo nel 2007 con “Sleuth“, la sua versione della piece scritta da Anthony Shaffer e portata sullo schermo nel ’72 da Joseph L. Mankiewicz. Sembra si diceva, perchè la geometria del set de “Gli insospettabii” è impostata per fare il paio con i motti di spirito riscritti da Harold Pinter per l’occasione e con un surplus di tecnologia nel tentativo di rinnovare lo spazio diegetico della scenografia ideata da Ken Adam; un trucco che ristabilisce in breve tempo l’ordine ottico del cinema americano classico in stile Branagh, raggelando tutto quanto attraverso uno sguardo nostalgicamente archeologico e vitreo e con la presunzione di citare Escher (lo scenografo Tim Harvey proprio volutamente, si riferiva al grande artista olandese), il tutto al di là dei dispositivi a circuito chiuso e della scenografia hi-tech (ne parlavamo, male, in tempi non sospetti, da questa parte)

I film più recenti di Branagh (la produzione Marvel “Thor” e il reboot del “Jack Ryan” creato da Tom Clancy) si confrontano per la prima volta con due icone dell’immaginario popolare; il regista inglese ovviamente le re-inventa, se ne appropria e le trasforma innestando elementi Shakespeariani oppure, come nel caso di Jack Ryan, lavorando sulla scrittura di Clancy per creare una cosa del tutto nuova, ma che allo stesso tempo prende le mosse dallo stile dello scrittore americano.

Cinderella sembra confermare questo nuovo corso; tra Disney e Perrault Branagh sceglie il suo amore per il cinema classico, rielabora lo spirito dello Shakespeare commediografo e sopratutto potenzia la sua capacità di lavorare sui personaggi e sullo spazio, senza che l’apparato si mangi il film, quindi con un dominio sul materiale più vicino al lavoro fatto su Thor che, come era successo con l’Hulk di Ang Lee ma anche il Wolverine di James Mangold, acquisiva un nuovo spessore tragico.

Non solo personaggi e spazio, perchè uno degli aspetti più evidenti del nuovo film di Branagh prodotto dalla Disney è il lavoro sul colore; il direttore della fotografia è Haris Zambarloukos, sodale del regista inglese da “Sleuth” e recentemente collaboratore di Steven Knight per Locke; il tentativo è quello di riferirsi al Technicolor (tra l’altro, in perfetta sintonia con la retrospettiva di quest’anno alla Berlinale 65), girando infatti su pellicola Kodak, ad eccezione di alcuni (pochissimi) interventi in CGI e pensando alla Disney stessa ma anche al musical, ad alcuni noir fotografati nello splendore accecante di luce e colori, come “Leave her to heaven” e ovviamente a Powell e Pressburger, veri e propri feticci per Branagh, la cui Cenerentola, quando scappa dal ballo allo scoccare della mezzanotte, corre quasi come Moira Shearer, anche se a sintonizzarsi su quelle atmosfere sono più le prospettive espressioniste a cui Branagh ricorre che non il personaggio interpretato da Lily James.

Proprio su Cinderella, Branagh, insieme al prezioso Chris Weitz, sceneggiatore del film, lavora cercando di restituire quel senso di luminosità del personaggio, procedendo per accumulo e stratificazione ma senza comprometterne la credibilità drammaturgica; “Ella” da bambina ha l’aspetto e la positività di Pollyanna, non è solo la somiglianza con Haley Mills e i colori pastello del primo segmento, molto simili al film di David Swift del ’60 prodotto proprio dalla Disney e realizzato in Technicolor, ma è la stessa filosofia del personaggio creato da Eleanor Hodgman Porter a influenzare il carattere di “Ella”, il segreto della positività che la madre insegna alla bimba, essere “coraggiosi e gentili”, è molto simile al gioco della felicità che il padre di Pollyanna insegna alla piccola, prima di rimanere orfana e di essere adottata dall’arcigna zia; un parallelo fortissimo con il film di Branagh, considerato che quello della forza e della gentilezza sarà il refrain che per tutto il film metterà in contrapposizione “Ella” alla perfida matrigna interpretata da Cate Blanchett.

Proprio Lady Tremaine, secondo una tradizione Disney che ha legato nei decenni l’elaborazione dei personaggi disegnati sui volti del cinema classico, sembra modellata su modi e toni di alcune figure femminili del cinema “nero” statunitense, tra la Marlene Dietrich di “Testimone d’accusa” (e le radici Wilderiane dei fratelli Weitz, grazie al nonno Paul Kohner, agente del grande regista, oltre che della Dietrich, potrebbero essere una possibile origine) la Stanwyck de “La fiamma del peccato” (sempre Wilder) e la crudeltà di Joan Crawford.

Del resto, a proposito di oscurità e desiderio, Branagh insiste anche sull’immaginario fetish in modo sottilissimo e allusivo, al di là di tutta la lunga sequenza del riconoscimento, scarpetta di vetro alla mano, lungo inserto con i toni della commedia, c’è un erotismo trattenuto, sottile e pervasivo; pensiamo alla scena del ballo girata come se si trattasse di un amplesso, ma sopratutto ad un breve frammento dove Cinderella allaccia uno stivaletto in stile vittoriano a Lady Tremaine, gioco delle parti che ha una sottile venatura erotica, un approccio sottilmente legato al puritanesimo vittoriano appunto, confermato dal depotenziamento grafico dell’erotismo nel contesto del riconoscimento, tra calze fetide e il piede di Cinderella che non viene mai inquadrato interamente, nè mostrato nudo (il classico Disney era invece molto più esplicito su questo aspetto)

Lo stesso utilizzo dello spazio, quando Cinderella e Lady Tremaine si confrontano in soffitta, con la Blanchett seduta in fondo, e il volto tagliato da luci e ombre mentre la ragazza dalla parte opposta rimane in piedi davanti alla porta, sembra concepito per esaltare la profondità di campo come in un noir Wellesiano, altro riferimento a cui Branagh non rinuncia ma che qui è assolutamente integrato alla psicologia dei personaggi, come tutto il resto.

Con tutte queste Caratteristiche Cinderella diventa naturalmente una commedia e un dramma umano, attraversato nella prima parte dalla presenza della morte, con un forte senso della relazione scopica tra piani, dove “Ella” è inquadrata quasi sempre sullo sfondo o in profondità di campo, mentre la sua realtà si sfalda, e il senso della perdita, affrontato attraverso i numerosi riferimenti alla letteratura per l’infanzia, si trasforma passo passo in un vero e proprio racconto di formazione, dove il riconoscimento della propria maturità sessuale non è certo quello soverchiante riletto da Angela Carter attraverso le varie morfologie della fiaba, ma pur ancorandosi ad una traccia classicissima,  ne parla riconducendo tutto ad una dimensione semplicemente magica e mantenendo la destinazione originaria della fiaba.
E se la scena del ballo, oltre ai britannici Powell e Pressburger è un’enciclopedia hollywoodiana in piena regola, tutto il contrasto tra essere e apparire che attraversa il film, scandito dalla frase apparentemente innocua pronunciata da Ella “Just because it’s what’s done doesn’t mean it’s what should be done” ha ovviamente una radice profondamente Shakespeariana, senza che la firma del Bardo dell’Avon sia così visibile e ingombrante.

 

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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