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Cleo di Erik Schmitt: Berlino città pulsante, la recensione del film

Cleo nasce a Berlino quando sua madre muore. Dentro l’abitacolo di un’autoambulanza il padre deve scegliere se salvare la moglie oppure offrire un futuro alla figlia, perché entrambe non possono sopravvivere. Tutt’intorno le urla della folla in festa, è il 9 novembre 1989 e la piccola viene alla luce sul margine di una città divisa, all’ombra del muro che crolla.  
Erik Schmitt, che aveva nove anni durante quegli eventi, racconta lo spirito di una generazione nata sul bordo della Storia, alla ricerca di radici più profonde, legate ai segni di una città stratificata con ottocento anni di vita.
Ed è proprio sul concetto di stratificazione che insiste, stabilendo un dialogo costante tra Cleo e i fantasmi del passato con cui la bambina riesce a dialogare, come fossero residui di fotografia spiritica in bianco e nero, o più semplicemente, la sopravvivenza di una memoria cinematografica e documentale improvvisamente fuoriuscita dai confini della Filmhaus che ospitano la Deutsche Kinemathek, per occupare gli spazi coloratissimi della nuova Berlino.

Le presenze di Marlene Dietrich, Max Planck e Albert Einstein parlano con lei, dalle panchine dei parchi oppure dall’oscurità di un pub fumoso; una relazione speciale con lo spirito della città che si interrompe quando durante una delle gioiose Flânerie condivise con il padre, questo muore per il crollo di alcune macerie causato dall’esplosione di un vecchio ordigno, sepolto tra le viscere della stazione radar del complesso di Teufelsberg.

Quell’area monumentale, costruita con i resti del secondo conflitto mondiale, è il centro della ricerca di Cleo che sovrappone storia personale e collettiva, alla ricerca di un tesoro e di un orologio; il primo è quello relativo all’ultimo rocambolesco furto architettato dai fratelli Franz ed Erich Sass alla fine degli anni venti, il secondo è un vecchio dispositivo a molla in grado di spostare le lancette del tempo e di sanare le contraddizioni tra oscurità e speranza, gli stessi elementi che sono alla base della nascita di Cleo e che hanno forgiato il suo carattere di donna ormai nel pieno dei trent’anni.

C’è una relazione speculare tra Berlino e il personaggio interpretato dalla rossa Marleen Lohse, anima traumatizzata, figura attraversata dal tormento che non abbandonerà mai la relazione tattile con le viscere di una città, in grado di raccontare la storia intima e personale di tutti quelli che la abitano e la vivono.

Realizzato con il linguaggio della quest per bambini, “Cleo” attraversa i luoghi della città nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, cercando di recuperare lo stupore delle origini, per mettere insieme l’oscurità con la volontà di andare verso la luce. Entrambi gli stati diventano fondamentali, come occasione per non cancellare i traumi della Storia, individuando nel presente una nuova spinta comunitaria. Schmitt si serve dell’animazione passo uno e di alcuni effetti ottici che desume dal cinema delle origini, senza filtrarli con la scorciatoia delle motion graphics.

La fantasia e alcune trovate folgoranti avvicinano il film del regista tedesco al Gondry più artigianale, senza eccedere nell’ipertrofia tecnica, tanto da favorire lo sviluppo di un’elegia berlinese, nel tentativo di raccontare la configurazione incongrua dell’architettura cittadina, fatta di innesti e improvvisi deturnamenti dello sguardo.

In questo senso Schmitt segue percorsi inconsueti, sceglie punti di vista inediti anche quando percorre spazi più battuti e soprattutto, recupera una delle storie marginali e dimenticate nella lunga evoluzione della città, affidandole una portata simbolica che deve esser scoperta oltre il tono ludico dell’intera operazione.

Quella dei fratelli Sass è una piccola storia criminale che emerge dal fenomeno più generale dei furti bancari avvenuti tra il 1928 e il 1929 e che in quegli anni mettono in ginocchio la città di Berlino. In quel clima, Franz ed Erich, pianificano le loro operazioni con meticolosità ingegneristica, prendendosi gioco delle forze dell’ordine con grande disinvoltura e piegando i media del tempo dalla loro parte con notevole intelligenza. Moderni Robin Hood, i Sass rubano ai ricchi e portano a compimento l’enorme furto alla Discount Bank riuscendo a svuotare più di 200 cassette di sicurezza. Con l’ascesa del nazismo, pur tentando di evitarne gli effetti, saranno chiusi nel campo di concentramento di Sachsenhausen e giustiziati immediatamente.

Nel film di Schmitt i fratelli Sass connettono i ricordi di Cleo bambina ai racconti leggendari del padre e quelli della donna ormai trentenne con gli obiettivi di Paul, il ricercatore girovago interpretato da Jeremy Mockridge che chiederà proprio a lei di scavare nei recessi della città nascosta, per trovare il tesoro di queste due figure quasi dimenticate anche dai berlinesi.

Come nei migliori film d’avventura per ragazzi, Schmitt colloca i suoi personaggi ai limiti della legalità e fuori dal contesto ingessato della Berlino turistica, come a suggerire che nello spirito ribaldo dei Sass, ci sia la chiave per interpretare le aporie e le qualità di una città apolide.
Nello stesso modo in cui Körnerpark, a Neukölln, diventa il luogo centrale per raccontare alle nuove generazioni lo sviluppo di una città complessa, Schmitt sprofonda Cleo nei sotterranei e nei cubicoli della città, favorendo la sovrapposizione tra i due ambienti, senza per questo risolvere a favore dell’uno o dell’altro. Che il linguaggio sia quello destinato all’infanzia, non significa necessariamente che il film operi una semplificazione o una banalizzazione dei segni da cui è costituito. Al contrario, l’animazione, le scelte artigianali e la capacità di avvicinarsi alla sostanza dei sentimenti senza alcuna paura, liberano uno spirito anarchico che si avvicina maggiormente al Malle di Zazie invece che al Jeunet di Amelie.

La “sporcizia” dell’animazione analogica allora serve a Schmitt per raccontare queste contraddizioni e scegliere un punto di vista più contrastato, tra espressionismo e cubismo, interpretati attitudinalmente e non come bagaglio visivo da citare, ma anche per avvicinarsi a quello spirito autocostruito con cui Berlino spesso ha riconfigurato il suo assetto architettonico, espandendo spazio e visione.
Lo stop motion, quando emerge dalla camera di Cleo come finestra sul suo immaginario, oppure consente un salto vertiginoso da un palazzo all’altro, ha il compito difficile di rappresentare lo spirito di una città ancora pulsante.

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