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Cocoon (Kokon) di Leonie Krippendorff – Berlinale 70 – Generation: recensione

Il melting pot caratterizzato da immigrati di origine turca, clima festaiolo e gangsta-rap viene raccontato con una vicinanza totale alla ritualità di due giovani donne, la quattordicenne Nora (Lena Urzendowsky) e la sorella maggiore Jule (Lena Klenke), al culmine di un'espressione del desiderio destinata ad infrangersi

L’odore e i colori di Kottbusser Tor, cuore di Kreuzberg, accendono le scelte cromatiche di “Kokon“, opera seconda della berlinese Leonie Krippendorff. La città occupa lo spazio periferico della visione; intravista da uno scorcio inedito e osservata come una cintura che protegge una comunità libera e selvaggia di adolescenti, non sembra il luogo della gentrificazione turistica che ne ha in parte snaturato le caratteristiche.

Il melting pot caratterizzato da immigrati di origine turca, clima festaiolo e gangsta-rap viene raccontato con una vicinanza totale alla ritualità di due giovani donne, la quattordicenne Nora (Lena Urzendowsky) e la sorella maggiore Jule (Lena Klenke), al culmine di un’espressione del desiderio destinata ad infrangersi.
La delegittimazione sociale, intesa come indice di resistenza ai codici della seduzione globalizzata, si schianta contro la giovane Nora con grande violenza, nel passaggio dall’infanzia all’età adulta. La Krippendorff si serve di un concitato innesto di immagini transmediali, tra l’occhio sempre presente degli smartphone e l’estetica pop che sostituisce il peso della realtà quotidiana, ma senza rinunciare ad una disturbante brutalità che ci coglie spiazzati, esattamente come i grandi occhi di Nora, di fronte ai continui abusi che vorrebbero plasmarne il percorso identitario.

Figlie di una madre assente, le due sorelle abitano il mondo colorato della suburbia berlinese con un diverso grado di partecipazione. Se Jule e le sue amiche assimilano tutte le posture e gli stimoli della comunicazione di massa, incluse le pratiche più distruttive, Nora assiste silente trincerata dietro la propria timidezza, nel tentativo di conquistarsi uno spazio.
Sceglie una via traumatica la Krippendroff per la prima mezz’ora del suo film, tanto che l’esacerbata allegria ribalda del contesto non mitiga le violenze psicologiche e fisiche subite da Nora nell’ambito della tribalità adolescenziale.

Mentre viene derisa per le sue prime mestruazioni, costretta a ingoiare cotone idrofilo imbevuto di succo di frutta per mimare la dieta delle top model, coinvolta in una roulette cinese dove ne esce con una mano rotta, alleva le larve dei lepidotteri in un barattolo di vetro, dialogando con un mondo metamorfico che allude al suo stesso processo di conoscenza carnale.

L’elemento acquatico è l’unico dove la manifestazione del desiderio diventa più volte possibile per Nora, prima avvicinandosi ai corpi delle compagne durante un momento di gioco in piscina, poi nei ripetuti incontri con Romy, ragazza “selvaggia” interpretata da Jella Haase, già con la Krippendorff in “Looping”. Carismatica, carnale e capace di stabilire una comunicazione alla pari con il contesto maschile, avvicina Nora con l’attenzione, la sicurezza dei gesti ed un erotismo avvolgente.

La breve relazione viene raccontata con tutti i clichè della prima volta, attraverso un immaginario che aderisce al punto di vista estatico di Nora; rimane quindi sopra le cose come le cornici degli smartphone che selezionano la realtà con l’esplosione delle animazioni aumentate.

Per quanto l’infrangersi di questa auto-rappresentazione sia dietro l’angolo, con l’immagine di Romy improvvisamente confusa con la promiscuità di un ambiente che ha già espulso Nora, lo spazio alieno della ragazza viene assimilato da una simbologia della trasformazione che al trauma preferisce il tono lieve della fiaba allegorica, con quel riferimento didascalico al mondo delle farfalle, forse per aderire il più possibile all’osservazione del reale da parte di una quattordicenne.

Kokon rimane allora in bilico tra l’astrazione talvolta stucchevole dei manga e l’intensa crudeltà dei racconti di formazione che si legano alla ritualità dei gesti.

La Krippendorff riesce a immaginare visioni potenti entro un’area di sicurezza, quella del racconto per adolescenti, dal quale sembra non voler uscire.

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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