Se dovessimo identificare anche un solo cineasta dal quale John Hillcoat si tiene a distanza, ci verrebbe in mente proprio il nome di Michael Mann.
Triple Nine sembra a un certo punto attraversare il paesaggio urbano con quella fisicità che sorprende i corpi nella struttura di un esoscheletro più complesso, ma il cineasta australiano preferisce una selvaggia cacofonia, non cerca la simmetria del conflitto e più che alla superficie dello spazio architettonico è interessato al sottosuolo. Il suo è un film sudicio e disperato, e più dei precedenti si lascia alle spalle la dimensione mitologica dei personaggi legati alla tradizione del racconto epico, spostando l’attenzione sulla natura oscura e infernale che regola l’intero sistema sociale, habitat senza via d’uscita dove anche il personaggio interpretato da Casey Affleck, poliziotto dalla condotta lineare e illuso che questa possa superare i codici della violenza, viene totalmente immerso in una realtà caotica, senza alcuna possibilità di comprensione se non attraverso il ribaltamento dello sguardo che normalmente assoceremmo alla meraviglia.
Questa qualità negativa dello sguardo è la stessa che sperimentiamo attraverso gli occhi di Emily Blunt in Sicario, dove la rappresentazione del male è quella di un organismo destinato a consumarsi.
Ad accentuare la dimensione ferina e selvaggia, la costante asimmetria delle inquadrature e l’attenzione di Hillcoat al dettaglio, momento della rivelazione, intesa non come denotazione, ma come emersione brutale dell’indicibile.
Ecco che la Los Angeles di Triple Nine diventa un girone infernale popolato da figure tribali che ne regolano la vita, come se fossero prelevate da un Outback immaginario dove i tatuaggi sul corpo, i simboli religiosi, i vestiti di Kate Winslet, crudele boss della mafia russa di origini israeliane, la stella di davide, i cadaveri ammassati e mescolati con il cibo Kosher, combinano segni conosciuti e altri non codificabili in una realtà senza più direzione se non quella cannibalica del sopruso, con le dinamiche famigliari sempre al centro, vero e proprio propellente antropologico nel cinema di Hillcoat e radice stessa di un sistema definitivamente corrotto.
Persiste nel cinema del regista australiano l’ossessione di dipingere letteralmente l’immagine con il sangue, una dimensione fortemente pittorica che non è mai contemplativa ma legata al gesto improvviso, all’eruzione istintiva e al colore come emersione di un mondo sotterraneo. Come nel volto lordato di Woody Harrelson, è la forza pulsante della vita a rivelarsi improvvisamente, non importa se il cuore che la genera è completamente marcito.