Nel piano sequenza di circa due minuti che introduce “As you desire me”, le lenti di William H. Daniels definiscono e sottolineano il pubblico maschile di un cabaret di Budapest nel 1925, attraverso i movimenti esplorativi di un dolly. Lo sguardo è indirizzato all’oggettificazione di un corpo femminile negato allo spettatore del film, la cui esibizione canora riempie la sala del teatro con una voce disincarnata. Solo a numero concluso, la dimensione aurale sarà sostituita dall’immagine, con Greta Garbo che si lascia alle spalle la platea, mentre esce di scena e allo stesso tempo ci entra con un solo movimento. Esausta, attraversa il sipario per appropriarsi di un’altra cornice, rispetto al modello rappresentativo precedente.
È l’inizio di una serie di passaggi da uno stato all’altro che il corpo della Diva domina, invece di subire. Questa fuga dagli sguardi che vorrebbero inquadrarla, in una progressiva mutazione di maschere e ruoli, crea numerosi sconfinamenti eccentrici, rispetto al contenitore che George Fitzmaurice adatta da Luigi Pirandello insieme a Gene Markey per i meccanismi dell’industria Hollywoodiana, neutralizzando il relativismo e la frammentazione del punto di vista di “Come tu mi vuoi”, la commedia in tre atti di cui il drammaturgo di Girgenti aveva venduto i diritti a Lee Shubert, insieme ad altre tre. Il passaggio da Broadway alla MGM avviene in due anni e tutta la promozione e la pubblicistica del film è affidata ad Howard Dietz, che concentra l’intero piano di comunicazione su Garbo, i suoi vestiti, le acconciature e il modo in cui ama.
Più di un’eccedenza, il dominio incontrastato della Divina, rappresenta già quella progressiva messa in abisso di maschere attoriali e cultuali, che la Garbo innesca sin dall’inizio con un’esplicita parodia di Marlene Dietrich, dismessa nel successivo transito da Zara a Maria.
Senza addentrarsi nel complesso sistema di rimandi e rispecchiamenti che “As you desire me” sollecita, ci interessava partire da qui e dalla centralità delle trasformazioni identitarie della Garbo, come sabotaggio fecondo e visuale di uno spazio drammaturgico dato, per parlare della sorprendente messa in scena della commedia pirandelliana realizzata da Luca De Fusco e della capacità di Lucia Lavia nell’abitare uno spazio fatto di riflessi e illusioni prospettiche, con una fisicità e una forza dirompenti, vera e propria lotta del corpo e della voce, in un luogo di passaggio che complica la nostra stessa percezione.
L’ignota, nell’appartamento berlinese dello scrittore Carlo Salter, si mostra da subito come personaggio femminile eminentemente pirandelliano, proprio per l’impossibilità di definirsi se non attraverso la percezione dello sguardo altrui. L’anelito verso un’identità stabile contiene la sua stessa negazione, nella continua messa in abisso tra finzione e piani di realtà. Nel carosello di vizi e desideri che regolano la vita di Salter e di sua sorella Mop, l’Ignota è il primo lato di un triangolo che non si chiude, per la resistenza della donna a riempire lo spazio di un ruolo, mentre può interpretarli tutti. Quando l’italiano Boffi, emerso come da un sogno nel bel mezzo di una festa alcolica, le proporrà di occupare lo spazio di una memoria rimossa, invitandola a condividere una nuova vita con il marito che l’avrebbe riconosciuta dopo dieci anni di assenza, la recursività di gesti, tracce fisiche e prove rivendicate, diventeranno luoghi del dubbio, segni identitari da fare e disfare, soggettivamente e culturalmente destinati a continue codificazioni.
De Fusco fonde i tre atti di “Come tu mi vuoi” in uno solo di cento minuti, dove le metamorfosi da un luogo all’altro vengono assegnate, al volo, alle combinazioni illuminotecniche sul palco e alla modulazione delle trasparenze gestite dalle proiezioni su tulle, brevissime pause di interiorizzazione del racconto. Un brulicare di forme e luci che sembrano assumere consistenza particellare e che sprofondano la scena in una sospensione del senso, per indirizzare allo spettatore il significato di queste lacune, esperite in un tempo paralizzato.
Gli specchi, che moltiplicano e costruiscono punti di fuga illusori, determinano la qualità ottica dello spazio e assegnano alla nostra attività percettiva il compito di connettere le linee direttrici e di ricombinare la direzione dello sguardo.
Il regista napoletano ha già sperimentato a lungo l’impiego di proiezioni dalle grandi dimensioni, che occupano in trasparenza l’intera cornice del palco, ma rispetto all’utilizzo del primo piano che amplificava la geografia dei volti in Macbeth, Antonio e Cleopatra e altre produzioni, la luce, intesa qui come insieme illuminotecnico e dispositivo di proiezione video, disegna la morfologia stessa dello spazio.
La scena, determinata da elementi geometrici dal colore plumbeo, viene investita da fasci espressionisti che ne accentuano la radicale essenzialità e secondo lo stesso De Fusco, contribuiscono a creare un immaginario visivo desunto dal Cinema noir degli anni quaranta.
Eppure, nel praticare una stilizzazione estrema, viene sospeso ogni riferimento temporale, concentrando l’essenza del testo pirandelliano in un non luogo, che muta per il progressivo negarsi della coscienza.
Se il testo originale rifletteva anche sull’angoscia del dopoguerra, sovrapponendo il trauma de l’Ignota a quello di un intero paese, De Fusco concentra il suo lavoro sull’impossibilità di una rifondazione identitaria univoca, mettendo al centro un personaggio che si disfa, si fa rifare e abita il mutamento stesso come peculiarità dell’essere, liberando allo stesso tempo l’arte performativa di Lucia Lavia in uno spazio da ridisegnare continuamente con l’azione sciamanica del corpo.
Lavia porta inevitabilmente dentro un pezzo del suo percorso, ed interpreta una prova di resistenza sul limite, senza interruzioni e con una presenza che determina tutti i piani di realtà della rappresentazione. La contrazione che De Fusco opera sul testo, anche dal punto di vista visuale, cancella tutte le marcature grottesche e sceglie una messa in scena tesa e tagliente. Questo consente a Lavia di sovrapporre tutte le suggestioni equitemporali, da Louise Brooks ad Anna Karina, in un soggetto potenziale e possibile, che restituisce forma ai sommovimenti interiori, attraverso danza ed emissione fonetica.
La parola è modellata come materia cangiante, nella riscrittura della dimensione testuale con una creatività che si muove tra controllo e violente esplosioni istintuali. Pause, rilievi, accentuazioni che investono la sfera pulsionale, prima ancora di diventar discorso.
Su queste, il corpo disegna altre traiettorie affidandosi ad una danza senza requie e suggerendo una possessione impossibile da esorcizzare.
La moltiplicazione dei riflessi che trapassano la cataratta intangibile estesa sull’intera cornice ed entrano nel doppio mondo generato dagli specchi in scena, non agisce semplicemente sulla profondità prospettica, ma condivide la sovrimpressione cinematografica, con la simultaneità di più spazi teatrali.
Lo stesso ritratto di Lucia, spazio vuoto da riempire con un’identità emersa dall’azione concentrica di più desideri, centrale in ogni adattamento della commedia, diventa qui occasione per una frammentazione del punto di vista. Più volte riprodotto in abisso, come la rugosità di un’immagine frattale, ci indica senza alcuna didascalia che ogni dettaglio, ogni riflesso, ogni parola, ogni nome ripetuto, procedono dall’auto-somiglianza alla loro irregolarità particolare.
Le combinazioni possibili sono infinite, non solo per la libertà di abbandonarsi alle linee tracciate da una danza che si sposta da un piano all’altro della visione, determinando confini e fughe dallo spazio scenico sempre diverse e inattese, ma anche per i numerosi elementi in campo, non ultimo lo scambio semantico tra Lucia e Lucia, nella definizione di un’identità attoriale che cambia cornice, mantenendo al centro una potente riscrittura dello spazio performativo, inteso come territorio fluido.
Illuminante allora questa torsione verso il noir con un’estetica stilizzata, quindi per attingere da quel mondo creativo gli aspetti maggiormente legati alla rilettura dello spazio del desiderio, per come ha attraversato certi studi di genere.
Le donne nel ritratto, quelle vissute due volte e morte ogni volta, fuggite dallo spazio domestico oppure riapparse come furie rimosse in alcune storie della postmodernità, vengono concentrate in questo ventre di specchi e riflessi, dove l’energia vince sulle determinazioni troppo certe dell’io.
Il centro di questa versione di “Come tu mi vuoi” diventa allora attualissimo per il contributo autoriale di Lucia Lavia. La sua azione sul palco, tra parola e danza, tra sublime e mostruoso, erotico e alienante, nega quello specifico femminile incorporato nel limite rappresentativo. Ed è quindi la performatività, l’azione recitata, che suggerisce altre norme identitarie, in un movimento senza soluzione di continuità tra creazione e distruzione.
[Fotografia fornita da ufficio stampa Teatro Della Pergola (Matteo Brighenti), autore Antonio Perrinello]
Un capolavoro della maturità di Luigi Pirandello, forse in assoluto il meno frequentato, scelto da un regista come Luca De Fusco che ha invece molto frequentato l’autore siciliano e che decide di portarlo ora in scena con Lucia Lavia, protagonista di uno spettacolo cupo e carico di esistenzialismo, più che mai vicino al nostro tempo.
Come tu mi vuoi si allontana da ogni connotazione caricaturale dei personaggi per lasciare avanzare atmosfere quasi cinematografiche, da noir anni ’40, e sottolineare la drammatica, solitaria chiusura di tutti i personaggi, a cominciare proprio dall’Ignota, con la sua ricerca sull’identità personale.
In una scenografia ispirata alla galleria degli specchi de La signora di Shangai di Orson Welles, i frammenti del proprio riflesso rimanderanno alla protagonista l’inquietudine fondamentale del suo personaggio: rivedersi le richiamerà all’incubo di non conoscersi.
di Luigi Pirandello
con Lucia Lavia, Francesco Biscione, Alessandra Costanzo, Bruno Torrisi, Pierluigi Corallo, Alessandro Balletta, Isabella Giacobbe, Paride Cicirello, Alessandra Pacifico, Nicola Costa
regia Luca De Fusco
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Gigi Saccomandi
produzione Teatro Stabile di Catania, Teatro della Toscana, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Tradizione e Turismo srl – Centro di Produzione Teatrale – Teatro Sannazaro
durata 1 ora e 40 minuti, atto unico
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Date e Orari dello spettacolo
21 feb 2023 ore 21.00
22 feb 2023 ore 21.00
23 feb 2023 ore 19.00
24 feb 2023 ore 21.00
25 feb 2023 ore 21.00
26 feb 2023 ore 16.00