Il nuovo film di Philippe Lesage si apre dove il precedente Genèse applicava i puntini di sospensione.
La foresta, luogo di meraviglia e di trasformazioni orribili, rappresentava lo spazio del possibile. L’infanzia poteva irrimediabilmente spezzarsi, oppure rinascere.
In Comme le feu, la natura selvaggia avvolge interamente l’esperienza dei personaggi, confermando le intenzioni del regista Canadese di sviluppare una serie di racconti di formazione connessi tra di loro da suggestioni, stratificazioni e tracce.
Ancora una volta i modelli dell’ordine patriarcale, sotto accusa sin da The Demons, impattano negativamente sulla libertà degli adolescenti, totalmente immersi in uno spazio pre-formale e antecedente alla definizione di genere. La loro è una sessualità ribollente e senza alcuna mediazione, che subisce un arresto violento solo quando lo sguardo adulto la carica di ulteriori significati.
La collisione tra il Kammerspiel interno, set dove si consuma un gioco al massacro tra ego contrapposti, e la presenza poliformica della natura che circonda l’isolata residenza montana, mette in relazione due tipi di cinema, entrambi basati sulla corrosione della centralità identitaria.
Le radici sono quelle dell’horror o del dramma survivalista, deprivato di quelle alterità esplicite che da Deliverance a Cabin Fever, da Picnic ad Hanging Rock fino a Cabin in the Woods, hanno rappresentato il crollo delle certezze occidentali, rispetto all’improvviso manifestarsi di forze rimosse.
Lesage interiorizza il conflitto e guarda maggiormente al recente cinema del Quebec, dove la natura è ancora capace di rispondere alle istanze più profonde e racchiude l’esperienza non riconciliata dei cuori più giovani.
Rispetto alla forza amorale dell’habitat che circonda la casa nel bosco, gli adulti che discettano di caccia, vini, cultura e cinema, sono destinati ad essere inghiottiti dall’irriducibilità degli elementi, mentre i turbamenti degli ospiti più giovani, si accordano con libertà e modelli ideali lontani dallo scontro competitivo che viene messo in scena dai loro genitori.
Lesage si prende allora gioco del Carnage borghese, proponendo una via di fuga dallo spazio concentrico del salotto, come possibile distruzione di tutti i parametri che lo sostengono.
L’illusorio controllo di tutte le forze naturali esibito a tavola davanti ai commensali, si infrangerà nella parodia tragica di un’avventura tra le rapide.
Capace solo di produrre odio e pornografia, lo sguardo adulto cerca di corrompere le speranze delle nuove generazioni, imponendo un modello basato sul dominio, sullo sfruttamento del desiderio, sulla necessità di eccellere rispetto ad un avversario immaginario, sia esso un collega, un cervo da abbattere o il mistero stesso della natura.
Aliocha, la figlia dello sceneggiatore in visita nel rifugio del collega regista, viene alternativamente trasfigurata dallo sguardo paterno e da quello del rivale che la colloca nella posizione dell’oggetto sessuale, ma è del tutto estranea all’oggettificazione che il potere maschile esercita su di lei.
In qualche modo ritorna un tema già approfondito nel film precedente e il personaggio interpretato da Aurelia Arandi-Longpre condivide con la Noée Abita di Genèse lo stesso dissidio tra libertà e passione.
A differenza di Charlotte, Aliocha si sottrae con forza dal ruolo di musa e trova nella letturatura l’espressione di un’identità indomita e indomabile.
Sembra allora che la differenza tra prosa e poesia, dischiusa dalla citazione di Emily Dickinson che apre il film, letteralmente, proprio quando finisce, sia possibile leggerla a ritroso nell’opposizione tra il set drammaturgicamente chiuso della casa e l’anarchia dei movimenti nello spazio naturale, dove niente può essere controllato e previsto.
They shut me up in prose, definisce certamente uno spazio di libertà identitaria rispetto alla prigione delle convenzioni, ma è anche una celebrazione della libertà strutturale nella forma poetica.
Il riferimento si lega allora al personaggio di Aliocha ma anche al cinema ellittico di Lesage, sottoposto a improvvise sospensioni del senso, aperture inattese, possibilità sottese dai corpi e dai volti di una gioventù ancora libera dai codici di convivenza sociale.
Comme le feu non è probabilmente il film migliore del regista canadese, anche per una durata eccessiva che sbilancia il confronto attoriale tra Arieh Wolthalter e Noah Parker. L’intenzione è certamente quella di estremizzare fino alla parodia le attitudini di un mondo adulto che si parla addosso, che collassa su se stesso e sulle proprie attitudini sclerotizzate. La capacità di meravigliarsi viene qui sostituita dalla rappresentazione di un mondo chiuso che ripete, coattivamente, la necessità di meravigliare.
Un esperimento interessante dove riesce comunque a creare una tensione infinita che elide sempre l’esplosione apicale, ma forse meno incisivo rispetto al modo in cui lo stesso contrasto tra norma e libertà viene indagato nei film precedenti del regista.
Philippe Lesage rimane comunque uno degli autori francofoni più interessanti in circolazione, capace di mettere scena racconti di formazione drammaticamente interrotti e compromessi dalla crudeltà della realtà sociale mondana, come costrutto culturale e sociale.
Comme le feu di Philippe Lesage (Canada – Francia 2024 – 161 min)
interpreti: Noah Parker, Aurélia Arandi-Longpré, Antoine Marchand-Gagnon, Arieh Worthalter, Paul Ahmarani
Sceneggiatura: Philippe Lesage
Fotografia: Balthazar Lab
Montaggio: Mathieu Bouchard-Malo