Il tempo è un fiume, il fluire irresistibile di tutto il creato. Appena qualcosa si mostra agli occhi già non è più e un’altra la sostituisce solo per svanire a sua volta.
Marco Aurelio, Meditazioni
Rivelazione a Locarno 68 per la miglior regia in Cineasti del presente, talento emergente nella sezione Bright Future dell’International Film Festival di Rotterdam, in Kaili Blues (Lu bian ye can) Gan Bi sfrangia il continuum narrativo sottraendo linearità, crea uno spazio immateriale, un tempo fuori dal tempo dove tutto è favola e sogno, ma anche metafora di una condizione umana di solitudine immedicabile in un paese, la Cina, contaminata dall’impatto con la modernità, depositaria di tesori in via di dismissione, realtà rurale moribonda, sacrificata ad un inurbamento incontrollato e suicida.
Nella provincia di Guizhou, a Kaili, piccola cittadina muta e nebbiosa, vive Chen Sheng (Yongzhong Chen) un medico. Con un’anziana collega (Yue Guo) lavora in una clinica di poco conto da cui partirà alla ricerca di Weiwei (Shixue Yu), amato nipote abbandonato dal fratello, un delinquente incallito, padre degenerato che non avrebbe esitato a vendere il figlio per far soldi.
La lontana promessa non mantenuta di prendersene cura che Chen aveva fatto alla madre morente del bambino e le tracce via via più evanescenti di una moglie che non ha più visto da anni, sono buone ragioni perchè l’uomo intraprenda un viaggio che diventerà soprattutto una ricerca di sè.
L’altro medico della clinica, una triste signora rannicchiata anche lei sopra il suo carico di ricordi, gli chiede di portare una fotografia, una camicia e una musicassetta ad un uomo malato che fu un suo antico amore.
Focalizzato sul tema della solitudine che assedia e vince ogni battaglia sull’uomo, Kaili Blues sceglie le note blu per il suo canto. Una voce esterna recita versi mentre Chen s’inoltra in treno verso Zhenyuan, quindi tornerà a Kaili per chiudere la sua strana avventura.
Dang Mai è il luogo magico incontrato lungo la strada, mondo rurale ancora vergine fatto di immense foreste, dove un popolo semplice di contadini convive con fantasmi e credenze primordiali. Qui il tempo sembra contrarsi, passato, presente e futuro in compresenza creano distorsioni prospettiche, parte un formidabile piano sequenza di oltre un’ora che cristallizza il tempo in un flusso ininterrotto e intercambiabile tra reale e irreale. Il bambino che usa una casseruola per disegnare un orologio sul muro e il treno che corre senza fermate intermedie sono segni, là dove cadono/le nostre azioni cristalline / su nessun fondo, / tranne noi stessi.*
Nella cornice dello schermo si aprono sipari metaforici che sottraggono consistenza al naturalismo della mdp/sguardo e annullano lo sviluppo lineare della storia. E’ l’eterno ritorno nel cerchio mitico.
Scoprire “cosa c’è di luminoso nella notte, cosa c’è di notturno nella luce… fino alla schizofrenia, il mito del mondo scisso e capovolto” ** è il senso di questo viaggio che cessa ben presto di vivere all’esterno per calarsi nei meandri bui dell’ interiorità, contamina i livelli temporali fino a realizzare il suo senso nel qui e ora della realtà filmica.
La pensosità è la sua qualità vincente, la perizia tecnica, insospettabile in un giovane di 26 anni alla sua prima prova, è sbalorditiva, la maturità dello sguardo quella di un talento non comune.
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* Tomas Tranströmer, Poesia dal silenzio, 2001
** Pietro Citati, La luce della notte, 1996