Quando Serge Toubiana incarica Olivier Assayas di intervistare Ingmar Bergman è il 1989 e il regista francese ha appena realizzato il suo secondo lungometraggio, “Il bambino d’Inverno“. L’incarico affidatogli dai Cahiers du Cinéma non lo convince sino in fondo, Bergman era stato centrale nella sua formazione, ma per qualche ragione non ne frequentava da tempo la filmografia.
Alcuni film, come “L’ora del lupo“, che Assayas definisce come potentemente illogico, ancestrale e vicino al linguaggio del cinema delle origini, avevano rappresentato quell’inafferrabilità che giunge da certe opere. Questi bagliori continuano e finiscono con “Sussurri e Grida“, il film che cambia radicalmente il modo di concepire il cinema da parte di Bergman. Assayas smette di frequentare le sue opere, per recuperarle successivamente, dopo la visione di “Monica e il desiderio” alla Cinemateque, film che meglio di altri evidenzia quella tensione tra desiderio e violenza legata alla stagione dell’adolescenza, quasi uno specchio per il primo Assayas.
Tutto Bergman, secondo il regista francese, si fonda sulla nostalgia di un paradiso perduto, con queste figure divise tra la solitudine e il bisogno dell’altro. Un enigma che attraverso rotture, strappi, violenti cambi di paradigma può risolversi solo nell’intimità di ciascuno.
“Itinerario Bergmaniano” è una breve pagina di diario scritta da Olivier Assayas che chiude “Conversazione con Ingmar Bergman“, prima delle ricche note filmografiche curate da Manrico Mattioli e Alessandra Varetto per il volume edito da Lindau nel 1994, ristampato per una terza edizione nel maggio del 2018 nella bella traduzione di Daniela Giuffrida
Stig Björkman, critico cinematografico e regista vicinissimo al cinema di Bergman, affianca Assayas per una lunga intervista a quattro mani. Gli incontri sono tre, tutti organizzati durante la primavera del 1990, tra il 14 e il 16 marzo presso il Teatro Reale Drammatico di Stoccolma dove si trova l’ufficio del Regissör. Due magnetofoni e sei ore di registrazione complessive di cui verrà fatta fedele e accurata trascrizione, senza operare alcun taglio. Bergman li accoglie, risponde con precisione, ma alcune volte si rifiuta di farlo, invitando i due critici a seguire il flusso di una conversazione incoerente e un percorso tutt’altro che ordinato.
Quando racconta il suo primo contatto con il teatro, descrive l’attitudine a organizzare la “scena”, disponendo sin da bambino i giocattoli sul pavimento della camera. I gesti cambiano, dice ai due critici, ma non la qualità dei sentimenti.
La scrittura comincia tardi, verso i 19 anni, dopo un congedo forzato dalla leva militare per una lesione infiammatoria sulla parete dello stomaco. Rifugiatosi a casa della nonna a Dalarna, nella Svezia centrale, riuscirà a tirar fuori dodici piece, di cui una andrà in scena con il Teatro Studentesco. Di quel periodo impulsivo tutto viene perso, una relazione con i materiali che tende alla cancellazione sistematica delle tracce creative che possano mettere a nudo un processo, ad eccezione dei materiali conservati allo Svenska Filminstitutet.
La totale assenza di manoscritti e quaderni di regia, definisce il distacco di Bergman dalle sue stesse opere una volta ultimate.
Questo approccio apparentemente distruttivo evidenzia al contrario una forza creativa indomita che può manifestarsi solamente nello spazio relazionale tra luogo e attori. Da una parte la scrittura influenzata dal teatro di Strindberg e dalla sua aggressività ribelle, dall’altra la ricerca di un’aura e di un rapporto strettissimo con lo spazio stesso del teatro. Una relazione che si ripete sul set, quando la macchina da presa “si innamora dei veri attori“, rifiutandone altri più efficaci per la scena teatrale. Flagranza irripetibile che lo tiene a distanza dall’ossessione di rivedere i propri film; l’inferno, per il regista svedese, somiglia ad una sala di proiezione dove unico spettatore, sia costretto a vedere ininterrottamente le proprie opere.
Durante la conversazione Bergman ricorda gli inizi come dialoghista alla Svensk Filmindustri alla fine degli anni trenta, con le sceneggiature millimetriche scritte seguendo la scuola americana e amando in segreto i primi film di Duvivier e Carné distribuiti in Svezia, quel realismo poetico e quell’aura eterna di perfezione da cui si sente in qualche modo influenzato e che saranno invece rifiutate dalla Nouvelle Vague. Su questa scala di valori “valida ancora oggi“, come dice Assayas si creerà una violenta reazione in parte causata da un soffocante gusto dominante. Mentre il regista francese parla di una rivalutazione successiva del cinema di Duvivier e Carné, Bergman, più caustico e probabilmente con il pensiero rivolto al suo stesso cinema, risponde che in Francia “si è di moda” e improvvisamente “non lo si è più”.
La percezione della pellicola a partire dalle sue qualità tattili ed erotiche fa parte di questa forma aurorale ricercata ossessivamente da Bergman. Un sospetto per il video che affronterà con forte distacco e senza alcuna riconciliazione, per inseguire una relazione aptica che dal contatto con gli attori, passa per la presenza materiale di supporti e dispositivi. Il rumore della meccanica, il contatto con i materiali durante il montaggio. Una vicinanza al cinematografo delle origini, che Bergman esprime più volte durante la conversazione, attraverso una serie di riferimenti, tra cui quelli che riguardano la forza di un’arte giunta ad un livello apicale e senza alcun bisogno della parola scritta, mentre fonda il suo linguaggio sui dettagli, il gesto e il volto umano; l’ombra di Victor Sjöström è sullo sfondo, ma soprattutto queste due polarità estreme, costituite dal silenzio del cinema e dalle parole del teatro.
Più avanti, durante la conversazione del 16 marzo, Bergman tornerà su questo aspetto in relazione al bianco e nero e al colore. Una relazione palindroma che suggerisce il secondo, lavorando soprattutto con i contrasti e la diversa saturazione dei primi. Un film come “Il silenzio” per esempio, viene immaginato a colori, proprio per quel patto che riesce a stabilire con gli spettatori, nient’affatto dissimile rispetto all’alchimia che si verifica tra attori teatrali e pubblico. Dalla gamma di sfumature di “Sorrisi di una notte d’estate” quindi fino alla realizzazione di “Un mondo di marionette“, che la ZDF non vuole in bianco e nero per non creare un’anomalia rispetto alle abitudini percettive del pubblico e che Bergman filmerà, barando, a colori e in bianco e nero.
La refrattarietà di Bergman nel parlare dei suoi primi film si scioglie solo in alcuni casi. “Un’estate d’amore” del 1951, interpretato da Maj-Britt Nilsson e Birger Malmsten era stato scritto dal regista svedese all’età di 18 anni nella forma di una novella. Per Assayas e Björkman è ancora un film sorprendente, per il modo in cui anticipa il cinema moderno e quell’incertezza tra innocenza e purezza come sentimenti di cui è difficile parlare. Ma è su “Monica e il desiderio” del 1953 che si soffermano a lungo. Girato quasi per gioco, dice Bergman, viene ultimato in poco tempo per una serie di occorrenze fortunate. Emerge dal racconto del regista svedese uno dei momenti più felici della sua vita e della sua carriera, soprattutto nella descrizione del lavoro fatto con Harriet Andersson, dove l’attrice Svedese, una delle predilette da Bergman, sembra che mantenga una relazione erotica con la macchina da presa, mentre questa la stimola, la asseconda.
Sono quelle particelle che circondano le persone, dirà Bergman più avanti, in grado di contrarre presente, passato e futuro in un solo istante.
Assayas gli chiede se il cinema sia in grado o meno di visualizzarle, forse anticipando un’ansia di ricerca sul suo stesso cinema che approderà al bellissimo “Personal Shopper“, film che si interroga su questo interstizio indicibile che può crearsi tra immagine e dispositivo, materia e antimateria. Da Bergman al raggelamento del digitale il salto è enorme e sostituisce i fantasmi che si materializzano nel contrasto tra immateriale e materiale inscritto nei supporti analogici, ancora in grado di trasformare il tempo, arrestarlo, mandarlo al contrario, bruciarlo, metterlo a morte con un intervento manuale che alteri il suo stesso funzionamento meccanico.
Per Bergman, la creazione del sogno è difficile, il film è in questo senso un medium pesante, faticoso che lavora contro l’istinto.
La dimensione “soprannaturale”, che emerge nella descrizione delle particelle che si creano tra la macchina da presa e la Andersson e che torna come forma misteriosa in “Fanny e Alexander“, viene rivendicata da Bergman come la necessità per gli artisti di essere totalmente illogici.
Quello che conta è suscitare emozioni, perché sarà sempre possibile raccoglierne le conseguenze.
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