Favolacce ha messo in grande difficoltà la critica specializzata. Ogni tentativo pare «poco ispirato», se esegetico. Conversazioni su Favolacce, il volume curato da Ludovico Cantisani e pubblicato da Artdigiland aggira il problema: la miscela di tredici interviste agli attori del making of e un breve saggio critico del curatore dichiara un’impostazione tutta ex post. C’è da apprezzare un’idea: lo scienziato/accademico/studioso è anzitutto colui che sa porre le domande giuste. Insomma, un impianto induttivo, che isola gli impulsi (in parte inediti) che Favolacce ha presentato al cinema italiano a livello narrativo/narratologico, semiotico, sociologico, generazionale/esistenziale, diatopico. Vediamo come.
L’intenzione narrativa dei fratelli D’Innocenzo è chiara: «volevamo creare una struttura ipnotica». Le conseguenze metacinematografiche sono: struttura tentacolare, sensorialità diffusa, squilibri programmatici, andamento anticlimatico. Sul piano metanarrativo Favolacce ribalta il dualismo fiaba/favola, a partire dai suoi personaggi prosaici – figli dello spirito onirico felliniano (Amarcord in primis). Vilma e co appartengono tanto alla fiaba quanto alla favola, non subiscono la narrazione; il finale, per esempio, non è né realistico né fiabesco: dov’è la morale? Cantisani ripropone il dubbio: «il titolo tanto chiaro non permette una risposta netta». Può darsi, ma Favolacce non si riduce a buon milkshake teoretico, l’idea di una fiaba favolizzata è più convincente del contrario: una storia, priva di morale, affollata, che ha perso il ritmo della favola a favore di quello fiabesco. O meglio: una favola disillusa dalla fiaba stessa, che diventa ancestrale ma non escatologica.
Le ragioni narratologiche sono – va da sé – anche di ordine letterario/cinematografico. Il sostrato di Favolacce è variegatissimo. Cantisani indica Carver. Non solo: in Favolacce c’è molta letteratura americana: Roth, Bukowski, Frazen, Keruoac, Yates, King. Ma anche Calvino, Dostoevskiij, Ibsen. Dal cinema contemporaneo «tutto il Gus Van Sant più libero della Trilogia della morte, tutto John Cassavetes, tantissimo del cinema di Alan Clarke, ma anche Nico D’Alessandria».
Il linguaggio cinematografico di Favolacce veicola un percorso semiotico che imprime un senso narratologico – senza esagerare – inedito (almeno per il cinema italiano). L’idea è vecchia ma illustre: il Verga che ha mandato a farsi benedire l’incipit manzoniano (e l’unità aristotelica), rivoluzionando i nessi di casualità. Il montaggio di Esmeralda Calabria interviene in quest’ottica. I nessi causali saltano, e poco importa – il cruccio di Cantisani – quanto l’operazione sia semioticamente consapevole; la sintassi filmica de D’Innocenzo ignora cause e concause. il finale è di nuovo l’emblematico: chiude una circolarità mai aperta, riassume una coralità dilatata, seziona una narrazione centrifuga, riporta un’epifania antiesplicatoria. Fa bene Cantisani a sottolineare come questi siano elementi di grande valore in funzione di un cinema (definitivamente) emancipato dalla forma libro; esagera, invece, se sostiene che «Favolacce è un ottimo esempio di come la materia influenzi il linguaggio». Non ci siamo neanche aggiungendo l’aggettivo narratologico. In Favolacce la materia è linguaggio; la parodia della casualità diventa a tutti gli effetti un messaggio semiotico, narratologico e narrativo. Il debito a Malick è evidente.
L’altro versante linguistico di Favolacce è legato alla fotografia. Paola Carnera aveva una parola d’ordine: semplicità. «Sin dalla preparazione ho pensato che questo film non potevo farlo come direttore della fotografia ma come fotografo, perché il fotografo attribuisce una responsabilità assoluta ad ogni singola immagine, ogni singola immagine è in qualche maniera conclusiva». Le sequenze iniziali di Favolacce restituiscono il senso di Carnera: un «gusto nipponico per il dettaglio che svela un universo», che, però, perde la sua organicità – e così mantiene uno sguardo abissale, soggettivo/oggettivo, divino e, soprattutto, infantile, nel suo senso umorale.
Il tema generazionale è onnipresente. Meglio: il tema filogenetico «dell’incomprensibilità del mondo adulto da parte dei bambini». Favolacce suggerisce – a gran voce – la rappresentazione repentina del trapasso mondo dell’innocenza/mondo dell’esperienza, e il conseguente rifiuto dei bambini: «sto costruendo una bomba. Così finisce tutto». Nella scelta dei bambini c’è l’humus cupo della sindrome di Peter Pan – la favola Disney c’entra poco con l’opera di Barrie. Favolacce fa proprio un tema millenario: il rapporto Occidente-rappresentazione dell’infanzia. E lo intende a livello etimologico: il valore infantile di Favolacce è nel non pronunciato, nella consapevolezza altra, lontana dal fenomeno della “privatizzazione dell’infanzia”, ispirata dai figli intesi come performance genitoriale.
Le coordinate diatopiche di Favolacce sono volutamente non marcate: «abbiamo fatto un film sulla periferia che è La terra dell’abbastanza e uno sulla provincia che è Favolacce. Per noi collocare una storia significa cercare di evadere dalla sociologia». La variabile geografica tra città e periferia sussume una lunga serie di dicotomie sul confine: generazionale (tra infanzia e adolescenza), narrativo e narratologico (tra fiaba e favola), dimensionale (tra reale e fantastico). I D’Innocenzo hanno creato uno spazio filmico del reale onirico; la fila di villette a schiera sono collocabili ai margini di una metropoli: poco importa quale e dove. È una terra di nessuno, gentrificata direbbe Goffredo Fofi, rappresentazione di un’entropia borghese come simbolo unico delle prossime generazioni. In Favolacce lo schema diatopico è cifra dell’intera storia perché si tratta di una storia spaziale prima che temporale; Favolacce è nell’intuizione di Aristotele (che Newton ha stravolto a favor suo): non è tutto vuoto, ma tutto pieno. Così il microcosmo viziato di Favolacce.
Favolacce va inteso come una crescita disorganica decostruttiva. Ho letto che la pellicola rappresenta un romanzo di formazione a metà; non proprio, ha ragione Cantisani: è un racconto di deformazione. Il paragone con la rivoluzione cinematografica di Antonioni nel 1960 con L’avventura non è improprio: Favolacce polarizza, pur adattandosi a ogni forma; il paesaggio è indecifrabile, ma familiare per chiunque. Qui è l’inganno, nell’elemento generatore del film: l’acqua; della piscina, della spiaggia libera, della doccia prima che Vilma partorisca, dei gavettoni fuori scuola. La pellicola predilige linguaggi agrammaticali che ribadiscono la necessità – del cinema italiano – di non abusare e ancorarsi alla parola, «prima che la poesia diventi pappa».
Di Ludovico Cantisani ArtDigiland ha pubblicato anche “L’apocalisse è una festa“
Coversazioni su Favolacce
a cura di Ludovico Cantisani
con foto di set e disegni di Fabio e Damiano D’Innocenzo
in copertina: uno scatto sul set di Favolacce Fabio e Damiano D’Innocenzo
formato paperback, a colori
ISBN : 978-1-909088-46-7