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Corpus Christi di Jan Komasa: recensione

L’idea che ognuno è sacerdote di se stesso è antica, forse scontata, eppure non ha ancora attecchito ci dice Komasa: il personaggio di Daniel rappresenta la dimensione intima e insondata della religione. La recensione di Corpus Christi, dal 6 giugno in sala grazie a Wanted Cinema

Corpus Christi parte dalla fine. È quello che vuole Jan Komasa. Non è pleonastico; il regista nello stacco finale sul volto di Daniel (Bartosz Bielenia) ha messo gran parte del film. Il protagonista ha appena fatto a botte con un compagno del riformatorio, ha il volto insanguinato, gli occhi celesti sbarrati e corre. Scappa? È la domanda su cui si chiude il film. L’esodo finale è l’esegesi della storia; la domanda – riuscirà a scappare? lo scopriranno? – ritorna, ma Komasa ha cambiato piani da un pezzo: la riposta non è più importante.

Daniel la possibilità di redimere il suo passato l’ha avuta. Uscito con la condizionale dal riformatorio, avrebbe dovuto lavorare in segheria in un paesino dall’altra parte della Polonia, invece finge di fare il prete per qualche mese, fino a quando non sarà scoperto. Il film di Komasa gioca molto sul tema del doppio: al centro c’è il tema del delitto, eppure si vede solo il castigo. Il tono pacato e attento della storia nasconde un sostrato imploso: Komasa fotografa l’oppressione etica e sociale della religione nel suo paese; la processa direbbe Kafka. Di più: nel castigo evidenzia la mancanza dell’elemento rieducativo. Il riformatorio è una prigione di lupi. “Branco” urla il ragazzo prima di picchiarsi con Daniel.

Corpus Christi è un film politico, come lo era Varsavia 44 (2014). Ma Komasa torna a utilizzare l’accento intimo de La stanza dei suicidi (2011). Una delle etimologie greche del termine politico porta alla parola “comune”. È un’efficace chiave di lettura del film. Daniel è partigiano della sua idea di religione, Daniel è la persona comune che da carnefice mostra alle vittime il luogo dell’oppressione. Komasa si è inventato un cortocircuito che funziona a meraviglia. Per Daniel la via della redenzione è nella religione, eppure, quello che dimostrerà agli abitanti del paese è l’opposto: è la religione a renderli vittime. L’idea che ognuno è sacerdote di se stesso è antica, forse scontata, eppure non ha ancora attecchito ci dice Komasa: il personaggio di Daniel rappresenta la dimensione intima e insondata della religione.

Ora è chiaro da che cosa scappa Daniel: dalla colpa, l’impuntata di Corpus Christi. O meglio, in termini generali: la colpa cattolica. Filtrando la pellicola in quest’ottica, il cortocircuito acquista forza d’urto; l’elenco di metafore di Corpus Christi è piuttosto preciso: il riformatorio/giungla, il paese senza futuro, le accuse alla vedova, il sesso. Soprattutto il sesso. La scena dell’amplesso tra Daniel e Marta (Eliza Rycembel) era rischiosa. È invece un ingranaggio fondamentale: il sesso è l’elemento che rende nuovamente colpevole Padre Thomas (alias Daniel), ma ciò non gli impedirà di schierarsi contro le ingiustizie in paese. L’escamotage narrativo dell’incidente è un classico del racconto di provincia. Il precedente più fortunato è forse quello di Tre manifesti a Ebbing Missouri. Komasa lo plasma alla grande: l’interpretazione morale dell’incidente è la vera redenzione di Daniel. Non solo. L’idea che a una redenzione interiore, personale, singolare ne corrisponda una collettiva (quella degli abitanti del paese) è il sintomo di un’intenzione precisa del regista: l’ingiustizia è rivelata dal basso, da un colpevole, Daniel. A uno a uno i veli dell’ipocrisia della morale cattolica bruciano. Come la moto di Daniel quando si mette contro il sindaco.

Che Komasa fosse talentuoso era chiaro, ma con Corpus Christi si dimostra maturo, in grado di lavorare per sottrazione; come detto, nel tono pacatamente sovversivo, quasi formale, anche nei passaggi più rock ‘n’roll. La compostezza della pellicola è la compostezza religiosa della Polonia; la spoliazione di Daniel davanti all’altare è l’operazione etica di Corpus Christi. Una prosopopea potente, di scissione.

Corpus Christi di Jan Komasa (115 min, Polonia, Francia 2019)
Interpreti: Bartosz Bielenia, Aleksandra Konieczna, Eliza Rycembel, Tomasz Zietek, Barbara Kurzaj, Leszek Lichota, Zdzislaw Wardejn, Lukasz Simlat, Anna Biernacik, Lidia Bogacz
Sceneggiatura: Mateusz Pacewicz
Fotografia: Piotr Sobocinski Jr.

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Davide Spinelli è laureato in lettere all'università di Pavia e studia per ottenere la laurea magistrale "Language and Mind" all'università di Siena. Oltre che su indie-eye scrive per numerose realtà legate alla critica cinematografica e a quella letteraria.
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