Il debutto nel lungometraggio di Judith Davis assorbe e rilegge la sua esperienza come attrice e attivista. Più della carriera cinematografica, lo spazio da cui arrivano energie e suggestioni è quello teatrale condiviso con il gruppo “L’avantage du doute“.
“Tout ce qui nous reste de la revolution, c’est simon“, piece del 2009 nata dalle riflessioni del collettivo di cui la Davis fa parte, veniva sviluppata intorno ai dubbi politico esistenziali degli stessi membri. Al centro l’eredità del maggio francese e le sollecitazioni che dal passato ancora riuscivano a stimolare il presente. L’intimità, il suo rapporto con la dimensione sociale più allargata, la politica e la famiglia, il ruolo dell’arte, sono elementi dell’esperienza da cui attingere per aprire le continue possibilità della rappresentazione e della disputa, frutto di scontri, visioni contrastanti, modi di affrontare la realtà.
Sono passati dieci anni e la struttura centrifuga del racconto teatrale collettivo, animato da una relazione stretta con le biografie degli attori che lo costituiscono, ispira la scrittura del film della Davis, commedia agrodolce che si allontana dalla dimensione generativa del dialogo per far collidere la parola con i luoghi, gli spazi e i volti dell’habitat famigliare. La domanda che Angèle si pone sulla sopravvivenza di un sentimento rivoluzionario vorrebbe mantenere al centro una qualità analitica di matrice generazionale, ma è proprio lo scontro con coloro che l’hanno preceduta a creare un vuoto tra il tempo della comunicazione globale e quello di una memoria mai vissuta.
Non solo lo studio a conduzione famigliare che licenzia la giovane donna, mentre viene glorificato il principio di flessibilità come se fosse una conquista sociale, ma soprattutto il rapporto con una famiglia che sfugge al desiderio di afferrare la continuità con un mondo che non esiste più. L’unica traccia rimasta sembra quella del gesto improvviso, dell’esplosione verbale, del dito medio vergato con l’indelebile sulle vetrate delle banche cittadine.
Ma se anche una scolaresca con i gilet gialli scambia quel disegno per un “piselletto”, è probabile che Angèle non riesca a superare l’impasse di un continuo cortocircuito. La parola, nei monologhi irruenti scritti dalla Davis insieme a Cécile Vargaftig, si infrange quasi sempre con una realtà più ampia rispetto all’urto immediato dell’invettiva, tanto che i personaggi di “Tout ce qu’il me reste de la révolution” sembrano destinati a creare un continuo contrasto tra cornice sociale ed eccedenza dei comportamenti.
Judith Davis riesce abilmente a declinare questo continuo incepparsi della comunicazione con le situazioni della commedia e un propellente slapstick ritagliato rigorosamente sulle dimensioni del ritratto intimo.
Ecco che la minaccia di un mondo disumanizzato, viene in fondo scongiurata da questo progressivo avvicinarsi impacciato e irrisolto tra corpi e volti che hanno dimenticato come fare ad amarsi e che per questo cercano di comprendere quanto sia necessario o meno compromettere la propria visione del mondo con quella degli altri.
La Davis sviluppa una serie di bozzetti intimi, dove la forza dell’imprevisto risiede tutta nella capacità di cogliere dai propri attori uno scarto tra il volto e il ruolo, quella fragilità in grado di rimettere in discussione non solo le relazioni, ma anche l’assetto drammaturgico del film stesso. Sui personaggi maschili in generale viene costruito il progressivo sfaldarsi di una visione idealistica, tanto che il film è anche una piccola opera corale che cerca la sua via attraverso la lenta e difficile emersione delle identità femminili.
Non c’è molta differenza allora tra l’approccio protettivo di un ex militante come il padre di Angèle (Simon Bakhouche, il Simon della Piece Originale) e Stéphane (Nadir Legrand), il marito della sorella Noutka (Mélanie Bestel) ossessionato dal rendimento economico di una vita dedicata ai successi aziendali. Entrambi esercitano un controllo su affetti ed orizzonti che emergono dalle modalità in cui gestiscono lo spazio quotidiano. L’isolamento in cucina per Simon dove assolve la funzione di padre ed insieme madre e il contesto conviviale per Stéphane, dove l’equilibrio si basa sulla sua personale idea di famiglia.
Judith Davis li descrive attraverso la gestione dei movimenti e delle azioni esperite nello spazio sociale, riuscendo a trasformare i toni e i contrasti causali della commedia nell’improvviso rovesciamento di un pregiudizio percettivo. L’esplosione violenta di Simon nei confronti di Said (Malik Zidi), l’uomo con cui Angèle potrebbe avere una storia e la durissima sequenza in cui Stéphane, simulando un licenziamento per scherzo durante una cena, percuote violentemente Léonor (Claire Dumas), l’amica e compagna di battaglie politiche della protagonista, sono simmetriche per temi e linguaggio. In entrambi i casi Angèle acquisisce una consapevolezza maggiore sulla propria identità, mentre la Davis ci rende partecipi di questa acquisizione della coscienza attraverso uno slittamento di senso e di registro.
“Tout ce qu’il me reste de la révolution” è allora anche un film sul senso della perdita come incapacità di fare spazio all’azione interiore. Angèle non ha perduto gli anni migliori della rivoluzione perché non li ha vissuti, ma perché il padre, come tutti i padri o i mariti travestiti da padri, ha mistificato una parte della realtà, ricavandone una propria narrazione da tramandare.
La traccia della rivoluzione è allora nello sguardo di una splendida Mireille Perrier, che riemerge come frammento dal Cinématon senza fine di Gérard Courant con una folgorante intuizione familistica e biografica “en abyme”, prima ancora di assumere il volto di Diane, la madre di Angèle più di trent’anni dopo. Quel volto destinato all’oblio appare nuovamente nella vita di Angèle, quando l’ipotesi di un abbandono per ragioni politiche si avvicina sempre di più alla capacità di lasciare andare come unica possibilità per continuare ad esistere.
Tutto quello che rimane della rivolta è allora nella dolcezza di quello sguardo che ci osserva da due distanze diverse, come la mano tesa verso la figlia in una strada di campagna deserta e quel vuoto che non può essere più colmato solamente con le parole. “il personale è politico” a cui evidentemente Angèle anela ostinatamente, nel tentativo di ricondurre la realtà che le sfugge ad una narrazione coerente, diventa improvvisamente capacità di scorgere nella forza intima del gesto, l’unica politica a cui sia possibile affidarsi.