martedì, Dicembre 3, 2024

County Lines di Henry Blake: recensione

Folgorante debutto per Henry Blake. "County Lines" affronta il dramma dei minorenni sfruttati per il traffico di droga in Inghilterra, distanziandosi dalle modalità del realismo sociale praticato dal cinema britannico e trovando una via personale, crudissima, brechtiana e visionaria.

Tradotto letteralmente, County Lines può indicare i confini di più aree amministrative, ma nel gergo comune ha assunto un altro significato, strettamente connesso ad una delle piaghe sociali più dolorose tra quelle che attraversano il Regno Unito. Le linee “mobiles” che attraversano le contee dell’Inghilterra sono quelle utilizzate da un numero sempre crescente di minorenni, cooptati dalle mafie locali per transitare sostanze stupefacenti lungo il paese. Approfittando della loro inesperienza, la rete criminale sfrutta e ricatta bambini e adolescenti, facendo leva sull’innocenza e in molti casi su condizioni economiche precarie.  Muniti di smartphone dedicati e irrintracciabili, mettono a rischio le loro vite e quelle famigliari, tanto da esser considerati come criminali de facto.

Henry Blake, che per un lungo periodo della sua vita è stato un operatore sociale, contribuisce ad una visione più stratificata e complessa che gli consente di spostare la linea percettiva utilizzata per separare i carnefici dalle vittime. 

County Lines” è il primo lungometraggio diretto dal regista di origini neozelandesi ed è un progetto a lungo coltivato, la cui forma embrionale era già stata sviluppata nel 2017 con un cortometraggio dallo stesso titolo.

Presentato al BFI London Film Festival 2019 e programmato per l’uscita nelle sale britanniche nel 2020, proprio nei mesi dell’esplosione epidemiologica, è una rigorosa analisi ambientale che supera tutti i limiti del realismo sociale con un’attenzione specifica alla relazione tra corpo, ambiente e colore, quest’ultimo spinto in una direzione neoespressionista, a metà tra il cromatismo marcio della suburbia dipinta da Leon Kossoff e una costruzione polimorfa e allo stesso tempo angusta dello spazio visivo. 

Il tramite sembra in parte l’Alan Clarke di Christine, aggancio che ci serve per sgomberare il campo da qualsiasi confronto con il cinema di Ken Loach, per favorire una linea più sperimentale, in parte desunta da una radice brechtiana comune. 

La casa, luogo di alienazione contemporanea, viene inquadrata da Blake con quella distanza che gli consente di osservare la mutevole attitudine dei corpi a caricarla di senso. Nido, rifugio e allo stesso tempo incubatore di violenza, cambia di segno in base alla prospettiva da cui viene vissuto l’ostacolo architettonico rispetto alle esigenze degli individui.

Gli spazi comuni, spesso filmati in modo da comprendere più di un “alveare” all’interno della stessa abitazione, trasformano il gesto nel passaggio dalla richiesta d’amore all’abuso perpetrato. Distacco ed empatia si scambiano di posizione sul delicato e impossibile crinale dell’osservazione, concentrando energie opposte nel volto e nell’incedere di Conrad Khan, che nel film interpreta il quattordicenne Tyler. Vittima di violenze scolastiche, il corpo e il volto del ragazzo è incluso da Blake entro un quadro visivo dove lo spazio sembra sempre troppo stretto e dove il contatto sociale conduce all’esplosione dei corpi e all’abuso.

La scuola potrebbe essere una prigione oppure uno dei tanti “Boarstal” che accoglievano giovani outsiders durante gli anni settanta. Se la prospettiva visiva tende a costruire una relazione evidentemente claustrofobica tra spazio sociale e corpo, Blake non indugia mai sulla distorsione ottica, cercando nelle dominanti cromatiche e nella marcescenza degli ambienti, l’avanzare di un’inevitabile corruzione dello spirito.

Tyler vive con la madre Toni (Ashley Madekwe) e la sorellina minore Aliyah (Tabita Milne-Prince), protegge la seconda dalla prima quando la donna rientra a casa ubriaca per scopare occasionalmente e con il suo sguardo dolente, assegna un significato simile alle violenze indicibili subite da una delle clienti del racket, pestata a sangue dal compagno durante una delle consegne del ragazzo. Sulla smorfia grottesca della donna, modellata dal labbro spaccato, il lavoro di Blake insieme al direttore della fotografia Sverre Sørdal, si libera dalla tentazione documentale, per favorire la controversa stratificazione di energie opposte contenute nel ritratto.  Non solo una questione di luce e colore, ma di intensità segnica, che cerca di rivelare la bellezza attraverso l’orrore, la pietas al centro della distruzione causata dall’abuso.

Non è un caso che Blake e Sørdal, nelle poche interviste rilasciate, abbiano dichiarato una distanza voluta e per certi versi ricercata rispetto alle modalità del realismo sociale praticato dal cinema britannico. Le fonti visive citate sono le fotografie di Hannah Starkey, chiaramente per quanto riguarda la concezione dello spazio visivo e quelle di Nan Goldin, nella relazione tra ritratto e colore. Se dalla prima desumono questa incorporazione dell’immagine, come risultato di una cornice che ne apre altre, tra riflessi, specchi e ostacoli architettonici che determinano il racconto individuale, dalla fotografa statunitense elaborano la lezione del ritratto con una sorprendente capacità di comprenderne lo spirito più profondo per raccontare l’Inghilterra contemporanea, con altri mezzi rispetto a quelli del cosiddetto cinema di indagine.

La violenza domestica ritratta dalla Goldin, anche attraverso uno dei suoi autoritratti più potenti, trattiene il bacio e il pugno nello stesso volto. Nella comprensione di una lunga catena di vittime, Blake non giudica mai, tanto da sovrapporre la violenza osservata e rifiutata da Tyler, con quella agita contro la madre, in una raffigurazione dello spazio famigliare che sembra inadatto a proteggere chi lo occupa, come se l’unico gesto tramandabile in un mondo privo di padri, fosse quello di un patriarcato parodico e ulteriormente deformato. Allo stesso modo, Simon (Harris Dickinson) non è semplicemente il boss che non ha padroni, ma parte di una lunga catena famigliare che protegge con la violenza la propria sopravvivenza e quella dei suoi cari, in un campo di battaglia. Simon diventa lo specchio potenziale dello stesso Tyler, il suo futuro annunciato.

“County Lines” diventa allora una galleria di ritratti baconiani, fatti di sangue, merda e carne, un disperato grido di dolore che si estende dai margini della città globale, le cui fondamenta marcite sono emerse per corrompere la cellula fondativa del vivere sociale a partire dagli anni della formazione.

Senza alcun compiacimento grafico, la violenza di “County Lines” è a tratti cruda e intollerabile, perché occupa quella porzione dell’occhio che ci sorprende impotenti al centro del fallimento del sistema educativo, nel collasso generale di quello economico. Lo sguardo di Blake è in questo senso coraggiosamente anti-proibizionista, perché senza costruire un’apologia maledetta della suburbia criminale, ne osserva la genesi come fosse un racconto di formazione rovesciato. 

Rispetto alla totale sfiducia nel sistema che interessa tutta la filmografia di Alan Clarke, nel film di Blake la possibilità del recupero rimane aperta; una dimensione mai banale e necessaria per non affondare nel cinismo programmatico che accomuna alcuni film elaborati intorno al milieu criminale. 

Tyler, massacrato fino alla morte, resuscita con il corpo martoriato trascinandosi verso la città alla ricerca di una nuova armonia sociale. Se nel traffico di stupefacenti, l’unica perdita accettabile è quella dell’individuo stesso, improvvisamente schiacciato e annichilito da una lotta feroce per la supremazia, l’unica speranza per uscire dallo specchio della morte è cercare di congiungersi ad un gesto d’amore e di perdono, quello brutalmente negato da tutte le società che hanno fondato la propria “salute” sul sistema carcerario. 

County Lines  di Henry Blake – Official Trailer

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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