mercoledì, Novembre 6, 2024

Court di Chaitanya Tamhane – Venezia 71, Orizzonti

Quando il pubblico ministero chiede all’imputato Narayan Kamble se abbia mai scritto canzoni che invitino al suicidio egli risponde di no, ma che non esclude di poterlo fare in futuro.

Kamble è un poeta di strada, un ex operaio che si esibisce in canzoni folk nei bassifondi o su palchi improvvisati tra la gente disagiata di Mumbai. I suoi testi sono forti, violenti, incomprensibili e fraintesi anche per il pubblico che vi assiste. Il presunto suicidio di un operaio, poco dopo una sua performance, fa ricadere sul poeta l’accusa di istigazione al suicidio. Ma Court non è la storia di un cattivo maestro. Quello che utilizza Chaitanya Tamhane è un pretesto narrativo finalizzato a ben altro: la costruzione di un film corale che si sbroglia da un comune punto nodale, quell’aula di tribunale che nel suo apparato estremamente burocratico e impietoso decide della vita altrui. I protagonisti sono i personaggi tutti della macchina giudiziaria. Individui che fuori dall’aula di tribunale si muovono in una vita ripetitiva. Il quotidiano entra in contrasto con la vita forense, come sospesa in lunghi e vuoti intervalli che il ritmo narrativo mette in risalto, come a ribadire che le serie e importanti questioni sono quelle in cui si mette in gioco l’esistenza stessa e il vero carcere è invece la routine asservente ad un sistema omologante.

L’avvocato difensore sosta nella signorile casa dei genitori, presiede a congressi internazionali o si aggira meccanicamente tra gli scaffali del supermercato, chiuso anche lui in quel sistema di consumo denunciato dal suo cliente nelle canzoni. Quella che ci presenta Tamhane è un’India dove ancora grava l’influsso coloniale, in cui i personaggi dialogano alternando l’hindi all’inglese. È la difficoltà di espressione e comprensione, due culture in contrasto tra cui incorrerà inevitabilmente un fraintendimento, il fraintendimento stesso su cui si basa il processo, l’errata interpretazione di un testo folk. Luoghi in cui si percepisce forte il contrasto tra le autentiche tradizioni indiane dei villaggi incontaminati e la metropoli occidentalizzata; come nell’immagine iperrealista dei ripiani stracolmi del supermarket che sovrastano e controllano la figura e l’esistenza dell’avvocato. Ed ecco che a metà film la focalizzazione cambia. Ora a guidarci nella vita quotidiana è l’avvocato accusatore; discute di inezie e shopping con una vicina di autobus, si lamenta dell’eccessivo affollamento dei mercati, va a pranzo e a teatro con la famiglia per assistere ad una commedia demenziale e, si direbbe, realmente sediziosa per le implicite allusioni discriminatorie, in netto contrasto con il teatro di strada in cui si esibisce Kamble.

Ma in questa vuota e rassegnata routine persiste sempre la forte presenza del gravoso compito a cui si è chiamati. Responsabilità da cui è impossibile staccarsi, così come doverosa è la denuncia espressa dall’imputato sulle condizioni antidemocratiche della società. L’avvocato difensore entra in un night con un gruppo di amici, si siedono ad un tavolo sorseggiando birra, sullo sfondo una cantante si esibisce in una canzone brasiliana scritta da un poeta di strada, e l’obiettivo mette a fuoco proprio questa esibizione di sfondo, trascurando il primo piano dell’avvocato. È un’immagine antinomica: la visualizzazione dei suoi pensieri che ritornano anche nei momenti di relax, il persistente compito a cui è chiamato e da cui non riesce a distaccarsi, il continuo rimando a quel vero richiamo al diritto di vita, forse, oppure espressione dell’indifferenza a quel richiamo evidente al suo cliente, che dovrebbe riuscire a sentire ma con cui risulta impossibile immedesimarsi, comprenderlo a pieno. Perché ciò che li divide è l’appartenenza di classe, l’incapacità di capire il reale malessere del popolo dei sobborghi.

La vita delle persone, sembra dirci Tamhane, è in mano ad individui incapaci di giudicare, che concepiscono i processi come una meccanica e tediosa procedura. Un’inaccessibilità alla sfera empatica. Un sistema paradossale, basato ancora su legislazioni vittoriane, presieduto da uomini e donne ormai corrotte dallo stessa sistema ipocrita e capitalista, vuoto ed individualista.

Il continui rinvio delle udienze perpetua la lunga agonia che condanna all’eterna incertezza e all’inevitabile impossibilità di comprensione; è la disumanizzazione di un sistema miseramente burocratico.

Court è quindi un film dove i controsensi, l’opposizione di luoghi, classi, mestieri, idee e azioni ne tessono la trama intera, restituendone il senso di imperscrutabilità della realtà e di inefficacia del sistema giudiziario. Anche il giudice svestirà la sua tonaca lasciando cadere il suo cipiglio severo, prima di partire per una vacanza in cui crollerà anche la sua razionalità giuridica lasciando trasparire il vero se stesso, ancora radicato a credenze apotropaiche indiane.

La scena finale sembra voler racchiudere in un minuto l’intero concetto di fondo con l’espressione “la giustizia dorme”: Il giudice assopito su una panchina è svegliato bruscamente da un gruppo di bambini, li punisce con violenza per poi ripiombare nel sonno indifferente. Questa è la giustizia, cinica e spietata. Un film in cui, in definitiva, sembrano tutti vittime e carnefici. La giustizia resta, sempre, in una dimensione utopistica.

 

Andrea Schiavone
Andrea Schiavone
Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.

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