Volantín Cortao è il secondo lungometraggio dei giovani Cileni Diego Ayala e Aníbal Jofré, presentato in fase di post produzione agli addetti ai lavori degli Industry Days del Festival di Locarno, l’iniziativa Carte Blanche aperta solo ai professionisti dell’industria, ha ottenuto pochi giorni fa il premio del pubblico e il premio VTR, entrambi decisi dagli spettatori, alla ventesima edizione del Festival Internazionale di Valdivia, che ogni anno si svolge nel sud del Cile.
Il film, inserito nella selezione ufficiale del prossimo Festival Internazionale di Roma, secondo le parole di Anìbal Jofrè, nasce dall’esigenza di osservare la vita di tutti i giorni sulle strade di Santiago, senza quella retorica televisiva che racconta la delinquenza giovanile rimanendo sulla superficie dello stereotipo. In più di un’occasione i due registi hanno parlato del nuovo cinema cileno degli anni ’60, quello di Aldo Francia, tanto per fare un esempio, del neorealismo e anche dei fratelli Dardenne come fonti di ispirazione principali per Volantín Cortao; e nel peregrinare inquieto di Paulina, giovane ventunenne studentessa in scienze dei servizi sociali, c’è un po’ di tutto questo senza troppi rischi derivativi e con una maggiore attenzione alla mutazione dei sentimenti, rispetto al determinismo funereo dei Dardenne.
La giovane ragazza svolge un percorso di praticantato in un centro di re-integrazione per minori, vive il rapporto tra vocazione e necessità come un doloroso dissidio e nonostante la pressione positiva dei genitori affinchè i suoi studi si allineino ai desideri e alla passione, osserva i ragazzi del centro con un interesse che non è quello socio antropologico, ma casomai spinto dalla curiosità per una vita fuori dalle regole.
Ayala e Jofrè lavorano sul contrasto in modo sottile fin dalla prima sequenza che si svolge all’interno del centro, dove Paulina restituendo un coltello ad uno dei ragazzi, sceglie un dialogo complesso invece del rispetto pedissequo del codice che le imporrebbe di fatto una prassi delatoria. È la stessa macchina burocratica del recupero che i due registi Cileni mettono in dubbio con uno sguardo onesto, diretto e sorprendentemente anti-proibizionista; mentre Paulina non riesce a trovare la vita nei tabulati excel che fanno parte del suo stage, la cerca per strada, luogo magico e inquietante che si identificherà con il suo percorso di formazione.
La festa semi clandestina allestita dai ragazzi del centro dove per essere accettati è necessario parlare un linguaggio comune o aver preso almeno per una volta un coltellata in pancia, la progressiva perdita di controllo come desiderio di far parte di una comunità e sopratutto l’incontro di Paulina con Manue, un sedicenne che vive con la madre in una casa ricavata da una zona abitativa dismessa; fuori dalle regole, costretto a superare le difficoltà con una serie di espedienti, dimostra una solidità diversa rispetto alla ragazza, per una conoscenza maggiore del confine estremo tra vita e crimine. Sono davvero molto belle le sequenze che ci consentono di scoprire la complessa geografia della strada come luogo di mutazione estrema tra gioco e minaccia, scoperta della vita e tracce di morte; sono belle perchè i due registi Cileni non insistono mai sulla forzatura di un segno poetico, rivelando la forza dell’immagine in una compresenza di questi due elementi e lavorando su quello slittamento di senso che potrebbe verificarsi all’interno di un unico spazio inquadrato.
Non è solo il tragico epilogo che nel raccontarci la deriva completa di Paulina, inizia come un gioco e dopo una brutale conclusione, si apre nuovamente all’incertezza con un’immagine di sospensione del tempo, ma sono tutti gli spazi che attraversa come fossero il continuum di un’educazione percorsa a rovescio e guidata dall’istinto più che una serie di tappe già determinate; i luoghi famigliari, la fuga dal centro di recupero con alle spalle il parabrezza della macchina appena spaccato, l’ingresso nella casa di Manu, la strada dove un gioco tra ragazzi sta per trasformarsi in una piccola guerriglia; Diego Ayala e Aníbal Jofré non giudicano ne giocano con gli attori come fossero cavie, il loro è uno sguardo amorevole e possibile, e non è poco negli anni, anche Europei, del carcere come oscena utopia negativa.