Dancing Mary è il film dell’acclamato regista giapponese Hiroyuki Tanaka, noto come Sabu. Racconta di Kenji, funzionario edile, costretto ad accettare l’incarico per avviare la demolizione di una vecchia sala da ballo. Un compito difficile, perché il luogo è infestato dai fantasmi. Supportato da una giovane medium che gli garantisce l’accesso al mondo degli spiriti, Kenji dovrà scontrarsi con i suoi superiori e con il clan della Yakuza locale. Per demolire la sala da ballo occorre mediare con il fantasma di una donna e trovare il suo antico amore perduto
Hiroyuki Tanaka, meglio conosciuto come Sabu, continua a dirci che l’unica spiritualità accessibile è quella individuale. Fa sorridere allora che si continui a parlare di “misticismo”, attribuendogli una visione olistica, quando i personaggi dei suoi film abitano mondi dall’immanenza spesso inconciliabile e il cui cortocircuito è prima di tutto semantico.
Dancing Mary veicola una commistione di generi e registri che non è assolutamente nuova nel cinema del regista giapponese, ma che riuscita o meno, preserva la coerenza di un discorso capace di sfruttare la contaminazione pop, per raccontare la coazione a ripetere della miseria umana, condizione che rende le figure dei suoi film basiche, controverse e attraversate da una poetica disperata.
Un vecchio Dancing Hall dismesso è prossimo alla demolizione. Kenji, funzionario comunale interpretato da NAOTO, viene incaricato di supervisionare e portare a termine la morte definitiva dell’edificio, ma ciò che ha scoraggiato i suoi predecessori non è un ostacolo comune. Mary, il fantasma di una donna, occupa il palazzo e impedisce a chiunque si avvicini di minarne le fondamenta.
Solo l’intercessione di una giovane medium (Aina Yamada) può consentire la comunicazione con il suo mondo e la visione dello stesso da parte di Kenji. Quando la medium gli prende la mano, il giovane funzionario può attraversare con lei la dimensione compresente della morte e conoscere creature altrimenti invisibili.
Mentre la coppia esplora il mondo dei morti sulla terra, Sabu si serve dell’espediente semplicissimo di virare il film in bianco e nero, sterzando dalle parti di una bislacca commedia umana che ha più di un punto di contatto con il notevole “Miss Zombie“. Con loro la foto di Johnny, ottenuta da Mary. L’amato musicista Hillybilly atteso invano in vita, si nasconde tra i recessi di questo inferno terreno e per trovarlo bisogna chiedere ai morti.
Al di là dell’espediente che parodizza un topos ricorrente lungo la storia del cinema giapponese di genere, Sabu è interessato a mostrarci una galleria di personaggi sul bordo, costretti a ripetere azioni meccaniche, incagliati nel simulacro dei loro desideri o nella proiezione infinita di colpe mai espiate.
Senza tetto, dropout, un manipolo di gangster sgangherati, il fiero “Mille tagli”, Yakuza del periodo Edo, costretto a vagare con una gragnuola di pugnali, quelli che l’hanno trafitto durante un tradimento collettivo. Ed infine Johnny e Mary, non così distanti dai due eroi romantici raccontati dal pop di Robert Palmer, costretti a girare su se stessi senza requie, prolungando un’attesa che non si è mai interrotta.
Eppure anelano alla vita più dei vivi, per i quali le funzioni economiche sostituiscono e annientano gli spazi destinati alla produzione di illusioni.
Chi ancora è capace di vedere, oltre i visionari, sono le due anziane signore ricoverate come malate terminali di cancro. A cavallo tra la vita e la morte, individuano in Kenji lo stallo di un’esistenza ordinaria, la stessa che attanaglia il popolo giapponese nell’espletamento dei propri doveri.
Il fantasma allora, nella relazione con le occasioni perdute, innesca quell’anelito verso il desiderio che è alla base della sua stessa messa in scena. Eccedenza tra le luci del Dancing Hall e il suo buio eterno, occupa gli spazi architettonici come le evanescenze di “Goodbye Dragon Inn” nella sala cinematografica del film di Tsai Ming Liang. In questo avvitamento tra reale e immaginario, protegge dall’oscenità del reale, ma spalanca anche una porta per comprenderlo. L’occasione perduta, puro oggetto del desiderio, è quindi un luogo vuoto, che per le figure sul limite del cinema di Sabu è investito dalla necessità costante della fuga come tentativo impossibile di otturarlo.
Ecco che Kenji, rispetto a Mary, è fantasma di se stesso, costretto a vagare nello squallore mercantile del mondo reale a causa di una totale rimozione dell’elemento simbolico che gli consentirebbe di interpretarlo.
Non è un caso che Sabu affidi alle due anziane malate terminali il compito di annodare i registri dell’esperienza.
Eppure mentre la sostanza evanescente del fantasma si dissolve definitivamente quando domanda e soddisfazione vengono a coincidere, Kenji continua a rifiutare il “dono” di poter entrare in connessione con una cornice temporale diversa, interpretandolo come una vera e propria minaccia al proprio statuto.
Sabu ancora una volta, sbarazzatosi di tutti i legami con la trascendenza, solleva lo sguardo su una strada lanciata a perdita d’occhio, dove Kenji e la giovane medium si allontanano nell’atto della fuga, come tutti i personaggi immaginati dal regista Giapponese.
Incarnano quello spazio ambiguo tra fugueur e flaneur, dove compulsione e osservazione, perdersi nel mondo e fuggirlo, si scambiano di posizione senza requie.
[Visto al Bucheon International Fantastic Film Festival]