Tom Tykwer ha fatto un film politico. O almeno ci ha provato, il che non rende la prima frase meno choccante. Cosa ci ha messo dentro? Cooperazione internazionale, ministeri crudeli, macroaziende benpensanti e crudeli, migrazione siriana, morti nel Mediterraneo, consumo di sostanze in discoteca, VR e hikikimori, donne delle pulizie polacche, psicoterapia di coppia, famiglie disfunzionali tedesche, desiderio e tradimento, lutto e magia.
Sicuramente ho dimenticato qualcosa.
A fare da sfondo per questo affresco epocale, indimenticabile, da inserire immantinente nel canone, è la Berlino di oggi scrutata da un drone nella prima inquadratura e setacciata palmo a palmo per quasi tre ore. Tykwer ha fatto un ennesimo videogioco da grande schermo. Lo ha scritto personalmente ed è tornato al pieno controllo autoriale, e alla lingua tedesca, per la prima volta dai tempi di Drei (2010), risibile tentativo di avvicinarsi a tematiche LGBTQIA+.
Forse in omaggio al suo mentore Rosa von Praunheim. Non va infatti dimenticato che Tom, così come Julia von Heinz, Axel Ranisch, Robert Thalheim e Chris Kraus, è un “Rosakind”, e personalmente ritengo il suo segmento del film collettivo Rosakinder (2012) il migliore in campo e forse il picco del cinema di Tykwer.
Das Licht è una corazzata che naufraga sotto il peso delle migliori intenzioni e di una sceneggiatura non solo eterna, ma anche e soprattutto prevedibilissima. Come in Rosakinder, Tykwer non resiste poi alla tentazione di tracimare nel videoclip, ne dedica uno a ogni protagonista – per un totale di: cinque – e nel girare quello in cui due giovanotti volano sulla Sprea e sul lungoSprea omaggia, o forse scopiazza, il Woody Allen di Tutti dicono I love you (1996).
Ma è l’impostazione dello script nel suo complesso a nascondere un cenno indubbio, che ne rende l’architettura a dir poco ridicola: Tykwer vuole rifare Teorema di Pasolini. Aggiornandolo, sincronizzandolo con l’agenda sociale della Germania odierna e infilandoci dentro un sacco di tecnologia.
Questa, almeno, perfettamente a puntino, dal drone dell’incipit alla plongée dell’ultima inquadratura, proprio come in Drei. Film kolossal nelle ambizioni, analogo per puzza sotto il naso e durata al tremendo Sterben (2024) di Matthias Glasner, Das Licht conferma un desiderio che chissà, forse un bel giorno si avvererà. Che Tykwer si dia davvero ai videogiochi, o alla VR, infilata qui nel mucchio insieme a qualche stereotipo sull’alienazione giovanile.
Detto ciò, il film si salva aggrappandosi a Bohemian Rhapsody cantata da un bambino. Una bella idea, che dimostra però non la tenuta di questo sproloquio berlinese, bensì quella del pezzo dei Queen, splendido cinquantenne.