sabato, Novembre 2, 2024

David Bowie in The Man Who Fell To Earth: le foto di David James nel volume Taschen

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Tra i fotografi di scena David James è certamente uno degli autori più eclettici e personali, ma al di là dell’ampio spettro coperto nella sua lunga carriera cominciata nei primi anni sessanta sul set di una commedia diretta da Ken Annakin, sono probabilmente i film bellici la sua firma distintiva. Da “I Mastini della guerra” in poi, lo splendido film di John Irvin, l’arte dell’istante negli scatti del fotografo britannico si allinea a quella del reportage e dialoga in modo attivo con l’opera del regista, svelando dettagli che funzionano come un vero e proprio saggio visivo capace di dischiudere altri percorsi interpretativi, oltre a cogliere quella flagranza che racconta lo stato di passaggio tra personaggio e interprete. 

Quella per “The Man Who Fell to earth” è la prima di una lunga serie di collaborazioni che vedranno James al lavoro sui set dei film di Nicolas Roeg; ritroveremo insieme i due artisti in “Eureka“, il secondo film sceneggiato per Roeg da Paul Mayersberg, in “Castaway“, ed infine in “Track 29“, il film prodotto da George Harrison nel 1988.
Questa continuità di James con il cinema di Roeg non è così lontana, per risultati e scelte, da quella con il cinema bellico di cui parlavamo.

Il regista più eretico ed eccentrico, tra quelli cresciuti durante l’esplosione del free cinema inglese, mantiene una traccia documentale libera e possibile anche nei titoli legati alla dimensione del fantastico.

Sul set di “The Man Who Fell to earth” James si trova tra un giovane direttore della fotografia sulla cresta dell’onda come Anthony B. Richmond, già insieme a Roeg sul set di “Glastonbury Fayre” e “Don’t Look Now“, e lo stesso Roeg, i cui esordi che precedono la sua carriera come regista, sono quelli di un abilissimo direttore della fotografia a partire dai primi anni sessanta. 

Roeg direttore della fotografia, ancora troppo poco analizzato nei manuali istituzionali dedicati alla Storia del Cinema, almeno a partire da “Fahrenheit 451” di Truffaut, definisce uno stile personalissimo che caratterizzerà lo sguardo delle sue regie, soprattutto in quella capacità di rilevare le aberrazioni del tempo. Con Richmond stabilirà un breve sodalizio, il più duraturo dal punto di vista tecnico, chiuso tra le sue personali direzioni della fotografia (“Performance“, “Walkabout“,  “Glastonbury Fayre“) e l’eclettismo dei film successivi a “Bad Timing“. 
Il Richmond che interessa a Roeg è probabilmente quello di un film misconosciuto, ma assolutamente seminale per il cinema inglese come “The Insomniac” di Rodney Giesler; mediometraggio di 45 minuti tra sogno e immaginazione che insieme alle opere del coevo Michael Reeves ha più di un punto di contatto con il cinema di Nicolas Roeg. 

David James si inserisce quindi in un contesto già connotato filosoficamente a partire da uno sguardo fotografico, inteso come dispositivo in grado di rivelare una realtà sfuggente e  stratificata, ben definito da un pensiero dello stesso Roeg: “Regista? Forse è un ottimo nome per un lavoro; offre l’idea di qualcuno in grado di orientare e comandare persone e realtà, ma il meglio che poi si possa fare alla fine è solamente un trucco. Qual’è la miglior inquadratura, quella “corretta”? Qualsiasi visione è una visione; è molto difficile scendere a patti con questo fattore casuale, io ci provo ed è davvero strano vedere come al contrario, le persone amino interferire con le cose; è molto facile essere ingannati se un film ha un bell’aspetto” ( Nicolas Roeg, Intervista contenuta in: Joseph Lanza – “Fragile Geometry”, pag 139, Paj Publications – NY, 1989 ).

Le “fragili” geometrie roeghiane, contribuiscono molto spesso a creare un effetto di vertigine: l’inserimento di osservatori di cui non sappiamo e non sapremo niente, la moltiplicazione del punto di vista, la concentrazione di tutto il visibile nelle sequenze introduttive, la riallocazione, la giustapposizione, lo s-montaggio; cecità e sguardo, indagare ed essere indagati, vedere ed essere visti. In questa direzione il suo cinema precorre, anche tecnicamente, l’ipertrofia visiva del post-moderno contemporaneo o di quella che potremmo definire come una riproposizione ipertrofica dei relitti post-moderni; cinema sempre (s)bilanciato tra un’adesione incondizionata a meccanismi e codici e una distruzione degli stessi per accumulo . Simulacri inintellegibili che annullano i segni del linguaggio, vertigine digitale dove il segno è illeggibile, cieco, occhio come energia distruttiva, sguardi nel vuoto che finiscono per “creare una sorta di iperrealtà fantastica che non vive che di montaggio e di manipolazione testuale” ( J. Baudrillard “Lo scambio simbolico e la morte” Milano, Feltrinelli, 1990 ).

Ecco che la fotografia di James, come documenta lo splendido e imprescindibile volume fotografico Taschen pubblicato per la collana Bibliotheca Universalis, trova nell’arte di un cineasta tra i più liberi di sempre, terreno fecondo per catturare tutti gli universi paralleli che “The Man Who Fell To Earth” dischiude. 

Tutti gli scatti che coinvolgono il New Mexico come territorio osservato da una prospettiva “aliena”, non solo per un Bowie nel periodo di sconnessione più alto con la realtà, emergono da un bianconero che diventa reportage dell’anima, basta osservare l’intimità e allo stesso tempo la tenera estraneità negli scatti che ritraggono Candy Clark insieme al musicista britannico, ma anche gli edifici (l’incredibile Hotel Artesia), le macchine e la relazione di tutto questo universo inanimato con una natura arida e inospitale.

Tutti i generi decostruiti da Roeg nel film, dal Western al Road Movie, emergono in una forma maggiormente crepuscolare e definita nel lavoro di James, questo perché la sua propensione ad accentuare gli elementi del realismo ci consegnano una fotografia di paesaggio e una ritrattistica di incredibile flagranza. James cattura la coesistenza delle falde temporali roeghiane spesso nello spazio di un solo frame; senza l’arte combinatoria e creativa del montaggio di Roeg, rimane la scabrosità di un realismo incongruo, capace di raccontare l’irrapresentabile con disarmante aderenza; in questo senso interpretando in modo personale il rapporto tra visione e memoria che attraversa tutta l’opera del cineasta inglese. 

The Man Who Fell To Earth è anche un film sulla denigrazione dell’occhio; disseminato di lenti, dal cristallino fissato sull’occhio di Newton agli occhiali di Buck Henry, ma anche di altre cataratte della visione, come vetri, specchi, superfici opache; cancella ciò che conosciamo del mondo circostante attraverso lo sguardo empirico, per spingerci a vedere con altri occhi. 

L’occhio fotografico di James si trova allora in quella posizione privilegiata e interstiziale che lo spettatore deve ricercare attraverso le tracce lasciate dal cinema di Roeg. 
In quello spazio, la documentazione fotografica evidenzia una realtà di mezzo, come gli scatti che congelano un vetro in frantumi o quelli che frappongono un diaframma fisico ai soggetti fotografati. 
Tra queste aberrazioni del tempo catturate da James, c’è anche la ritrattistica storica dei coloni osservati dall’abitacolo della macchina di Newton, attraverso un portale temporale che rivela la con-presenza di più epoche nel medesimo spazio. 

Si rileva in quegli scatti il rigore della messa in scena nel cinema di Roeg, ma anche la ricerca di un istante aurorale, non mediato, legato alla rappresentazione della verità : “I’ve a Grasshopper mind. It leaps about a bit….” (  “The man who fell on his feet”, Guardian, 22 Marzo, 1976:intervista con Nicolas Roeg ).

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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