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Die Kinder der Toten di Kelly Copper e Pavol Liška – Berlinale 69 – Forum: recensione

Copper e Pavol Liška prodotti da Ulrich Seidl compiono uno sforzo sovrumano per adattare il capolavoro di Elfriede Jelinek

Il romanzo di Elfriede Jelinek più noto in Italia e forse a livello internazionale è “La pianista”, pubblicato in Austria nel 1983 e adattato per lo schermo nel 2001 da Michael Haneke.
Nella vastissima opera del premio nobel per la letteratura 2004, “Die Kinder der Toten” occupa una posizione particolare; considerato il suo lavoro più importante, il romanzo è anche quello meno conosciuto, meno analizzato e meno tradotto, principalmente per la sua incredibile mole e la complessa struttura postmoderna.

Costituito da 666 pagine, è una rappresentazione della Shoah che si sdipana attraverso numerosi piani di lettura, generi e personaggi, rovesciando le forme della narrazione occidentale in una furibonda parodia che parte dalla tradizione gotica per riflettere sulla storia e l’identità Austriache. Feroce invettiva anti patriottica, fa i conti con il passato nazista del paese e con il percorso che ha portato all’oblio e alla negazione. Nonostante la complessa varietà di concetti e riferimenti affrontata, la vicenda si svolge in un brevissimo lasso di tempo ed entro i margini di un plot essenziale; “parla dei fantasmi della storia orribile di questo paese – dice la stessa Jelinek – e del fatto che essa stessa riposa su una montagna di cadaveri, aspetto che nessuno ha mai voluto riconoscere“.

Ambientato in un villaggio della Stiria, in Tirolo, ruota intorno agli ospiti della pensione montana Alpenrose, dove tra turisti provenienti dalla Germania e dall’Olanda, si materializzano un gruppo di Zombie che compaiono e scompaiono insieme alle bizzarre e inquietanti trasformazioni dell’ecosistema; dalle mutazioni degli insetti, fino ai repentini cambiamenti climatici. Ad arricchire il quadro, un gruppo di anime legate alle vittime della Shoah, che emergono dalla terra e si dirigono verso la pensione, fino al delirante epilogo, tra fiamme, cadaveri e una massa enorme di capelli rinvenuti tra suolo e macerie.  Con gli strumenti del cattivo gusto, alcuni elementi desunti dal “gore”, digressioni storico-filosofiche di altissimo livello e flusso di coscienza vero e proprio, la danza macabra della Jelinek si scaglia contro la coscienza austriaca, la sua complicità con il nazismo e l’ipocrisia che ha condotto alla cancellazione del passato. 

“Die Kinder der Toten”, pubblicato nel 1995, sarà tradotto per la prima volta in lingua inglese durante il 2019 ed è impossibile in questa sede spiegarne e soprattutto comprenderne la portata, dal momento in cui non lo abbiamo mai letto. 

Quello che ci è al contrario chiarissimo, considerando la breve durata del film diretto da Kelly Copper e Pavol Liška,  è la riduzione aderente ai temi essenziali del romanzo, ma allo stesso tempo la natura “colossale” del progetto, proprio dal momento in cui i due fondatori del notissimo Nature Theater of Oklahoma, hanno deciso di ricorrere ad un formato della “memoria amatoriale”, complesso e faticoso da “riesumare”. Come le pagine del romanzo, sono 666 i rulli di pellicola Super 8 utilizzati per filmare i luoghi dove è cresciuta la Jelinek e dove è ambientato “Die Kinder der Toten”. Con un punto di vista non dissimile dal nostro e seguendo l’approccio fondativo del loro teatro sperimentale, Copper e Liška non hanno letto il romanzo e sono partiti da spazio e ambiente per costruire uno sguardo sviluppato dall’essenza del gesto e dallo spirito primario del movimento, quello che nasce dall’ignoranza e dalla curiosità.

Questi aspetti, mentre giocano formalmente con il cinema delle origini, negano quella stessa superficie nostalgica con una continua messa in abisso dei suoi elementi, materiali e narrativi. Come già accadeva nei primi esperimenti “silent” della compagnia, la performance rimane al centro dell’inquadratura. Risultato di uno sforzo sovrumano, entra in simbiosi con l’indifferenza degli oggetti e della realtà circostante, cambiandone il grado di interazione e di percezione. Manca certamente il rapporto con il pubblico, ma in questo senso, la vicinanza al cinema della memoria e la dimensione familistica acquisita della pellicola amatoriale, riportano al centro quella poetica “imperfetta” dell’istante e dell’imprevisto, che si porta dietro conseguenze più complesse di quello che possiamo immaginare.

Agli antipodi rispetto a quel cinema che emerge dalla memoria esotica dei cineclub, Copper e Liška cortocircuitano la fotografia spiritica con una fantasiosa ed esilarante parodia del cinema di serie B, giocando sugli scarti temporali della pellicola (grana, giunture, errori) e allo stesso tempo sulla fisicità basica delle interazioni. 

C’è una lurida e assolutamente ludica corporeità che attraversa gli incontri tra i vivi e i morti, aspetto che deve esser piaciuto moltissimo al produttore Ulrich Seidl e che sfrutta l’incoscienza dell’approccio amatoriale come materia incandescente. L’incorporazione di una cornice dentro l’altra, parte allora dall’estetica del film di famiglia, senza mimarne le posture, ma cercando di calarsi al grado zero di quell’esperienza nel confronto con un testo inadattabile, impossibile, mai letto e affrontato per “sentito dire”.

L’emersione di un passato negletto, viene affrontata con la resurrezione dalle ceneri di un formato sepolto e che ha già un rapporto mediato con l’evoluzione corrente degli home movies. Rispetto alla “fedeltà” prosumer degli smartphone, la dimensione giocosa del ritratto di famiglia torna al centro esaltando gli aspetti più carnevaleschi del mettersi in scena e rendendo il travestimento, il trucco, la prostetica d’accatto, le frattaglie di maiale per le scene più gore, elementi essenziali di una vicinanza con il corpo che è ancora percepibile in certo cinema degli anni settanta. 

Al contrario della celebrazione di un cinema fantasmatico ed evanescente, pur mettendoci dentro di tutto, da Pabst a Lamberto Bava (l’incredibile ed esilarante citazione di Demoni all’interno del cinema clandestino), il Nature Theater of Oklahoma rielabora e irride certe fumosità dell’autofinzione postmoderna, avvicinandosi pericolosamente alla sporcizia dell’immagine pulsionale e per vie tecniche ed espressive diverse, alle influenze artaudiane nel cinema di Švankmajer. 

La parola  viene frantumata e confinata nel regno delle apparenze, con lo sfarfallio luminoso delle didascalie, spesso utilizzate in funzione oppositiva rispetto alle immagini, mentre dai corpi emergono onomatopee, grida soffocate e una colonna sonora elettronica, che pur mimando l’approccio melodrammatico affidato ai commentari sonori prodotti a posteriori per il cinema muto, sembra costituita da rumori, interferenze, lacerti di musica industriale. Natura e antinaturalismo, i corpi e dall’altra parte dello specchio, la grana della pellicola che tutto invade e corrompe con i segni di un tempo già visibile, aporie di un film che sembra minacciato dal suo stesso doppio, come il personaggio di Karin, inseguita dalla sua replica. 

Eppure, in questo gioco al massacro, che la stessa Jelinek con toni a quanto pare entusiastici, ha definito brillantemente come uno sguardo binoculare invertito sul suo lavoro, distanza e prossimità si scambiano posizione e ci sollecitano con i toni dello scherzo eccessivo, sull’esperienza quotidiana dell’alterità. 

Tutte le sequenze, assolutamente incredibili, che coinvolgono le due coppie di poeti Siriani, sin dall’equivoco iniziale in cui questi cercano cibo cucinato come in Siria in una pensione tipica della Stiria, rimettono in scena la crudele trivialità razzista del nostro sguardo, dove i morti, sono sempre gli altri, non importa se osservati con pietà, accondiscendenza o disprezzo; “alla fine, – dice la Jelinek sul suo romanzo – è un processo di decadenza. Tutti sono morti, ma non lo sanno ancora. Proprio come adesso siamo tutti morti, senza saperlo. “

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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