Per Arysteides Turpana, professore, studioso di cinema e poeta panamense, l’antropologia turistica era uno stereotipo dannoso da contrastare. L’immagine dei Los Kunas, gli indios che abitano le Isole San Blas, trasformata dagli obiettivi Kodak di quel cinema che ha assecondato per decenni un’immagine esotica, deve poter raccontare la complessità culturale e umana di una popolazione. Quella stratificazione che proviene dai Molas, parola dai molteplici significati che indica la lavorazione di un tessuto, una camicia o una gonna, trattiene una visione cosmica della realtà e della natura tradotta in termini visuali con i manufatti della tradizione, che nel tempo hanno assorbito aspetti estetici e politici in continua mutazione. La radice non è quindi solo quella di una concezione spirituale, ma la rivendicazione identitaria sancita dalla rivoluzione del 1925, quando gli indigeni si ribellarono all’occidentalizzazione forzata voluta dalle autorità panamensi, reclamando autonomia e conservando costumi e modello di vita matrilineare.
Pierre Dominique Gaisseau documentarista francese premiato dall’Academy Awards nel 1961 per Le Ciel et la boue, il film che esplorava i rituali segreti della Nuova Guinea, decide di realizzare un documentario sul popolo Kuna durante la sua permanenza newyorchese, dietro suggerimento di una vicina di casa panamense. Turpana farà da tramite linguistico e culturale, mentre la presenza della moglie Kyoko e della figlia di tre anni Akiko garantirà una connessione più facile con la popolazione indigena in virtù della loro struttura matriarcale. Gaisseau sarà quindi il primo occhio cinematografico a poter filmare i rituali di iniziazione femminile dei Kuna.
Iberogun (God is a Woman) viene realizzato tra il 1975 e l’anno successivo, ma la sua accidentata storia distributiva ne ha compromesso anche la conservazione.
Inizia più o meno da qui il film di Andrés Peyrot, filmmaker panamense attivo in Svizzera, che grazie ad una coproduzione tra i due paesi e la Francia ha potuto mettersi sulle tracce delle immagini filmate da Gaisseau, ricontestualizzandone il valore testimoniale che rappresentano per la stessa identità Kuna.
Il patto tra il regista francese e la popolazione indigena sancito sulla condivisione dei risultati, non fu possibile a causa dei problemi legali che tolsero a Gaisseau il potere di disporre della pellicola. Oltre alle memorie dei sopravvissuti, quell’esperienza rappresenta un veicolo importante per la popolazione e un ponte con il passato più recente da trasmettere alle nuove generazioni.
Se la forte componente visuale e rappresentativa della cultura locale mette al centro le radici di un’autonomia che orgogliosamente si distingue dai modelli occidentali attraverso il significato assegnato all’arte figurativa e all’allestimento della rivoluzione con un grande rituale teatrale dall’imponente forza fisica e collettiva, il recupero del film di Gaisseau sottende una duplice occasione. La prima è il ruolo testimoniale di quelle immagini, a fronte di trasformazioni che potrebbero allontanare nell’impermanenza del ricordo la forza di alcuni rituali, il secondo è la fondazione di uno sguardo indigeno attraverso lo stesso lavoro di regia compiuto da Peyrot.
Il giovane regista panamense coinvolge direttamente Turpana, morto durante la lavorazione del film, in un percorso multisoggettivo che riguarda la sua visione poetica, ma anche le esperienze dei vecchi, delle donne, della gente che ha vissuto quegli anni.
Mentre il film segue tutte le fasi che hanno riguardato il recupero di una copia parigina conservata segretamente dallo stesso Gaisseau, si costruisce a poco a poco uno sguardo contemporaneo sulla vita del luogo, capace di riscrivere criticamente il senso del lavoro svolto negli anni settanta dal cineasta francese.
Akiko, il titolo affettuoso con cui la popolazione locale chiama il film di Gaisseau onorando il ricordo della figlia, è già uno spossessamento autoriale che vuol ricondurre quelle immagini fuori dal solco di una visione paternalista.
Tutto il percorso che conduce all’attesa proiezione si svolge sotto il segno della partecipazione collettiva, a partire dall’allestimento dello schermo con relativo telaio in legno, per garantire la visione estesa in un grande spazio aperto del luogo.
Le immagini del 1975, che per tutto il film rappresentano un contrappunto dialogante con i racconti orali, perdono la sostanza fantasmatica e labile della prima pellicola devastata, ritrovata in territorio panamense, stagliandosi con chiarezza sui volti degli spettatori. Dal senso della perdita e della scomparsa che attraversa tutta la prima parte del film, con quei fotogrammi che sembrano emergere da una dimensione mnestica labile, si passa ad uno scambio attivo e commuovente. Ridare vita al girato consente allora di non far caso all’ingombrante voice over di Gaisseau, scardinandone l’orientamento narrativo e rilanciando la flagranza dei potenti momenti di iniziazione femminile.
Le lacrime dei bambini di allora si sovrappongono a quelle del testimone adulto per intensità e comunione spirituale, consentendo un riconoscimento pieno della propria presenza storica, prima di allora inimmaginabile.
Sono gli stessi colori dei Molas che accolgono le luci e le immagini della proiezione, in uno scambio tra i volti ancestrali e le stratificazioni figurative. L’immagine diventa allora porosa, permea la vita presente e si fa permeare, con un’estensione che passa dalla memoria al grande disegno cosmico che annulla distanze e differenze temporali.
Peyrot trasforma questa materia incandescente in un testo davvero proteiforme e possibile, sospeso tra saggio storico, esplorazione intima e spirituale, antropologia visuale ed infine testimonianza politica.
Ma ciò che lo rende unico è il suo radicamento ai principi comunitari che rappresentano l’identità di un popolo, oltre qualsiasi riduzione.
God is woman (Dieu est une femme) di Andrés Peyrot (Francia, Svizzera, Panama 2023 – 86 min)
Sceneggiatura: Andrés Peyrot, Elizabeth Wautlet
Fotografia: Patrick Tresch, Nicolas Desaintquentin
Montaggio: Sabine Emiliani
Musica: Grégoire Auger