Lunedì sera, la discoteca
Martedì sera, la discoteca
Mercoledì che mal di testa,
ma sono andata alla discoteca
Quando gli Exchpoptrue di Christian Bouyjoy, Chloé Fabre e Radha Valli pubblicavano il noto tormentone minimal-dance, il dancefloor era già mutato radicalmente, perché lo “straordinario” aveva ormai “lasciato il posto all’ordinario“. La monotonia robotica de “La discoteca” potrebbe in effetti alludere, parodicamente, ad una routine quotidiana, ormai appiattita sugli automatismi dell’abitudine e parte di un tessuto urbano di consumo, incapace di aprire squarci paralleli verso limiti e confini di un diverso ordine di realtà.
Il lavoro di Lisa Bosi e Francesca Zerbetto si ferma durante gli anni novanta, per raccontare il fermento della club culture tra gli anni sessanta e l’ultimo decennio del novecento.
Ed è in fondo chiaro, quanto quelle energie fossero l’ultima propaggine di un secolo votato alla sperimentazione libertaria, proprio in virtù delle spinte centripete e proibizioniste che negavano l’esistenza di identità liminali.
Quando la frattura tra i due mondi è stata ipocritamente sanata, anche da un’industria che ha nascosto e si impegna a nascondere tutte le differenze, l’omologazione quotidiana ha sostituito la capacità di creare delle vere e proprie vie d’uscita in termini sociali, identitari, culturali e anche urbanistici.
La contemplazione delle rovine “disco” che le due autrici compiono, penetrando aree dismesse e rivelando lo scheletro della festa, emerge come residuo di una religione pagana, con alcune forme moderniste vicine alla mistica sovietica dell’architettura Ucraina. Sono entrambi resti di una sacralizzazione dello spazio, dove la frattura urbanistica contribuiva a creare un percorso interiore, tra storia, memoria e tempo presente, oltre gli aspetti meramente funzionali.
Mentre il crollo degli “dei” a Kiev, diventa cicatrice mai cauterizzata tra burocrazia sovietica e il disperato tentativo di trascendere la realtà materiale; la monumentalità della festa rituale colloca l’autodistruzione dell’edonismo dall’altra parte dello specchio, rispetto all’impostura del comunismo di stato.
Le rovine de L’Ultimo Impero, la monumentale discoteca piemontese chiusa nel 1998, non raccontano solo l’assenza flagrante di progetti di riqualificazione, ma diventano immagini della morte al lavoro, quell’entropia della festa che è ancora possibile sperimentare quando si leggono le pagine di Pier Vittorio Tondelli e Isabella Santacroce: consumarsi e bruciare, prima che la luce del giorno ci sorprenda.
Bosi e Zerbetto, che fanno largo uso di frammenti letterari tratti dalle opere dei due scrittori, costruiscono quindi una storia sensoriale della club culture italiana, dove il dato storico viene letteralmente sommerso da una quantità esuberante di materiale, ricombinato secondo codici che mettono in secondo piano la chiarezza della ricostruzione filologica, cercando quindi di attivare altri aspetti percettivi. Complici la fotografia visual di Salvo Lucchese e il montaggio di Bosi/Alberti che cercano di assecondare le sollecitazioni neuroendocrine della musica Techno.
“Disco Ruin” contiene allora almeno due livelli di lettura.
Il primo, quello che probabilmente sta più a cuore alle autrici, è la ricerca di un territorio comune, dove la storia del Dancefloor italiano possa essere raccontata come uno dei movimenti apolidi più rilevanti, tra quelli legati al cambiamento culturale, identitario e musicale del paese.
La rovina altro non è che il segno concreto di una ferita, quella di una rivoluzione negata e interrotta che individua un luogo popolato da fantasmi.
Non se ne indagano le cause, si mostra al contrario una parabola ricca di nomi, riferimenti, documentazione video, lacerti VHS, che dall’ipertrofia procede verso la dissolvenza, lasciando fuori campo la depressione e la mancanza di serotonina che caratterizzeranno altri racconti di formazione lungo gli anni novanta.
Il percorso culturale allora frulla a velocità cinetica l’esperienza architettonica della seconda metà degli anni sessanta e la capacità di guardare alla cultura sci-fi, costruendo spazi dove moda e nightlife possano comunicare, come al Bang Bang di Milano; passando verso la rivoluzione House, il grande fermento produttivo dell’Italo Disco, fino alla centralità del Cocoricò di Riccione, un’astronave di cristallo che ancora sembra connettersi ai sogni fantascientifici e utopici degli anni settanta, accogliendo un popolo di 3.000 persone ogni sera, pronto a trasbordare verso altri confini.
Per quanto Bosi e Zerbetto non si soffermino in modo esplicito sull’estensione logica delle sollecitazioni Space Age, traccia che rimane più o meno costante fino a tutti gli anni ottanta, nella relazione tra suono, tecnologia ed elementi architettonici, questo percorso emerge spesso, nella descrizione di una comunità “aliena”, che dell’alterità ha fatto il propellente principale.
Vien da pensare al misconosciuto cult di Slava Tsukerman, Liquid Sky, anno 1982, come incredibile mixer tra moda, new wave, disco club, fluidità identitaria e cultura gender, droghe, fantascienza e fluorescenza.
Lo scontro generazionale viene annullato da un grande ventre ultra-terrestre, che per partenogenesi concepisce suoni, luci, colori e corpi eccentrici.
Il luogo diventa esso stesso spazio mutante, in grado di accogliere numerose sollecitazioni, come un banco di prova per nuovi linguaggi. L’esempio più evidente è sempre il Cocoricò e il lavoro di art director come Ferruccio Belmonte e Loris Riccardi, che progressivamente trasformano la discoteca in uno spazio aperto, dove il confine tra performance e staticità del pubblico, viene definitivamente infranto.
La seconda chiave di lettura è irrimediabilmente legata alla dissipazione di tutte le energie creative, mentre procedono verso una normatività che le uccide.
Questa distruzione, che emerge con la classica forma binaria dell’eden minacciato da una furiosa ansia di conoscenza del proprio SE, dall’introduzione massiva di droghe sintetiche e dalla festa che diventa un cimitero che dissemina cadaveri per AIDS, può essere osservata da un’angolatura più stratificata.
Le rovine, sono in fondo come chiese sconsacrate, dove a venir meno è il confine tra lo spazio quotidiano e quello rituale. Per quanto questi mondi paralleli fossero votati all’annullamento di qualsiasi dimensione gerarchica, questo è vero solo in parte, se si presta attenzione al ruolo sacerdotale che assume il DJ in questo contesto: vero e proprio sciamano capace di generare un flusso e regolare il battito con quello della folla.
Per Claudio Coccoluto, il missaggio poteva assumere la stessa qualità eccezionale e rivelatoria di un goal di Maradona.
Culti in rovina.
Disco Ruin: 40 anni di club culture italiana (115 min – Italia, colore – 2020 )
Regia: Lisa Bosi, Francesca Zerbetto
Sceneggiatura: Lisa Bosi
Fotografia: Salvo Lucchese
Montaggio: Stefania Alberti Lisa Bosi
Musica: Emanuele Matte