sabato, Novembre 2, 2024

Dove eravamo rimasti di Jonathan Demme: la recensione

La strada, il rock’n’roll e il palco. È lo spazio tra storytelling e performance quello entro il quale il cinema di Jonathan Demme si è animato, prima ancora di Stop Making Sense, il film che più di qualsiasi altro ha cambiato la relazione tra musica dal vivo e audiovisivo, immergendo il lavoro di messa in scena all’interno della prassi performativa, per lasciarsi alle spalle il punto di vista documentale ad altezza spettatore.

Non è solo una questione di apprendistato, tra l’eredita cormaniana dei primi film e la scena del Saturday Night Live, ma un’incessante attenzione a quel territorio di confine dove vita ed esecuzione si confondono, nell’accezione che va dal lavoro dell’attore a quello del musicista, fino all’ipotesi più allargata di performing arts.

Alive from Off Center” è il titolo di una serie televisiva dedicata alle strategie creative di numerosi artisti e per la quale Demme ha diretto alcuni episodi nei primi anni ottanta. Ci sembra un’espressione splendida per definire il suo cinema, sempre oscillante tra i margini e il centro, vicinanza ed estraneità.

Il paesaggio contro i corpi lanciati a velocità rock’n’roll in Crazy Mama (e i siparietti che recuperano il Dylan/Pennebaker di Don’t Look Back), ma anche l’andamento musicale di Something Wild, assolutamente “on the road” nei continui cambiamenti di set e di generi, e sopratutto nell’intrusione del numero musicale a scompaginare le carte di qualsiasi drammatizzazione orchestrata, basta pensare a come il film fuoriesce, Alive, fuori dal suo centro con la splendida coda affidata a Sister Carol mentre canta la Wild Thing di Chip Taylor, frammento che si sostituisce al setting principale, incorporandone per lo meno altri quattro, da quello documentaristico e street style sottolineato dalla panoramica, fino alla cornice performativa del videoclip, a quella dell’arte visuale che fa da sfondo attraverso i colori sparatissimi del grande Tak Fujimoto, al ritaglio degli end credits e via dicendo.

Non è un caso che il lungo lavoro di Demme realizzato a fianco di Neil Young attraverso tre film diversi, oscilli tra la prossimità degli show al Nashville’s Ryman Auditorium (Neil Young: Heart of Gold, 2006) e il movimento del viaggio verso Omemee, che segue il musicista canadese durante il viaggio di ritorno nel paese natale (Neil Young Journeys, 2011), quasi a suggerire le due polarità entro le quali, il cinema (sempre) “musicale” di Demme si è sempre mosso, fino a Rachel Getting Married e al più recente Enzo Avitabile, music life.

Davvero ci interessa poco la cesura tra i due livelli, quello della vicinanza al movimento di una Jam e quasi fosse una dimensione contrastante, la cornice del racconto.

Per Rachel Getting Married c’era la penna di Jenny Lumet, per il nuovo Ricki and the flash c’è Diablo Cody, zavorra intelligente per numerosi progetti, incluso un film piccolo come Jennifer’s Body, rispetto al quale ci era capitato di preferire il lavoro di Karyn Kusama sull’immaginario pop, più vitale del digest femminista della prima.

Nel ritorno di Ricki verso casa, c’è tutto il contrasto di una vita vissuta nella musica a dispetto delle convenzioni famigliari, ma completamente ai margini dell’arena. Un viaggio a ritroso che non è così diverso da quello di Neil Young nel già citato film di Demme del 2011 dove “tutto è passato, ma ancora vivo nella memoria“, mentre il musicista canadese a bordo di una Crown Victoria del 1956 compie un percorso non dissimile da quello di altri personaggi del regista americano, ricombinando i ricordi nella prassi del suo stesso songwriting, esondazione vera e propria dall’occorrenza del concerto al Massey Hall di Toronto, per arrivare a sfiorare, letteralmente, gli spazi rurali svuotati dal tempo insieme allo sguardo di Young.

Che ce ne frega allora della scrittura “precisa” di Diablo Cody, quando Demme la sfrutta come uno strumento utile per staccarsi progressivamente dalla costruzione narrativa dei personaggi, avvicinandosi sempre di più a quella linea di confine di cui si parlava, dove il contrasto visibile non è quello suggerito dall’architettura dei dialoghi ma dall’attenzione agli oggetti, ai gesti minimi, al numero musicale che si sovrappone allo spazio intimo.

Dal soggiorno dove Meryl Streep esegue una versione confessionale del brano scritto per lei da Jenny Lewis, il cui rapporto tra musica e vita è tra l’altro sempre più flagrante, fino al crescendo della festa conclusiva, la dimensione di Demme è ancora una volta quella ritmica della Jam; scrittura di tipo contrappuntistico che imbastisce numerose linee di forza, correndo vorticosamente fuori campo come in Something Wild, oltre i titoli di coda e Alive from Off Center

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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