domenica, Dicembre 22, 2024

Eden di Ágnes Kocsis: recensione

Éva è tagliata fuori dal mondo esterno e confinata in un appartamento sterile. Allergica a qualsiasi agente atmosferico e a gran parte del cibo, al contatto e alle cose del mondo, passa le sue giornate tra le cure del fratello Gyuri che ogni giorno le porta da mangiare e le analisi periodiche a cui deve sottoporsi per valutare i progressi della sua storia patologica. Tenuta in custodia da un'azienda farmaceutica, viene seguita da András, psichiatra incaricato di stabilire se la sua condizione sia causata dal livello di inquinamento dei complessi urbani o se l'insorgenza delle allergie somatiche e respiratorie, sia in realtà indotta da una fragile situazione psichica.

Il cielo,
La terra finisce e lì comincia il cielo
Lo sguardo,
Ed anche stasera fa pensare a te
(Lucio Dalla)

All’indomani del premio Fipresci ottenuto a Cannes nel 2010 con “Adrienn Pál”, il cinema di Ágnes Kocsis ha suscitato un certo interesse da parte della critica internazionale.
Pochi avevano visto “Fresh air”, il lungometraggio d’esordio della regista ungherese, forse anche per questo si è cercato di tracciare il consueto fil rouge tra autori diversi, attraverso l’unità minima comune dello spazio inquadrato. Quello della Kocsis è sicuramente un cinema di lunghi piani, deprivato di qualsiasi commento musicale che non sia diegetico e sottoposto ad un progressivo smontaggio dell’orientamento scopico, entro il quale si dibattono corpi sottoposti ad un isolamento forzato.

L’est europa, in forma del tutto generica, ma anche autori come Ulrich Seidl e Roy Andersson riassumono più o meno il bagaglio di riferimenti critici utilizzati dalla stampa ai tempi dell’uscita di “Adrienn Pál”, senza valutare se metodo e scelte della Kocsis riescano ad evitare oppure rimangano intrappolate nel congelamento di quella compostezza di ascendenza pittorica, che nel caso di Seidl per esempio, individua nella relazione tra occhio e schermo, una prassi d’osservazione sadistica. Nella tradizione dei grandi autori austriaci di nature morte, Seidl abita uno sguardo di tipo entomologico che si tiene fuori dal mondo, squamando i corpi fino alla loro decomposizione, mentre a nostro avviso, la regista ungherese cerca di frammentare il punto di vista proprio attraverso la reiterazione del gesto, il contrasto tra la fissità dei piani e il modo in cui i corpi possono rimetterla in discussione.

Eden, ultimo lungometraggio della Kocsis recentemente visto ai festival di Rotterdam e di Göteborg, prosegue nella ricerca di questo contrasto, mettendo al centro per la terza volta una figura femminile in cattività. Dopo l’appartamento di “Fresh Air” e l’ospedale di “Adrienn Pál”, “Eden” fonde i due luoghi in uno spazio unico, ricreando le condizioni del nido entro uno stato di isolamento clinico e asettico.

Éva è tagliata fuori dal mondo esterno e confinata in un appartamento sterile. Allergica a qualsiasi agente atmosferico e a gran parte del cibo, al contatto e alle cose del mondo, passa le sue giornate tra le cure del fratello Gyuri che ogni giorno le porta da mangiare e le analisi periodiche a cui deve sottoporsi per valutare i progressi della sua storia patologica. Tenuta in custodia da un’azienda farmaceutica, viene seguita da András, psichiatra incaricato di stabilire se la sua condizione sia causata dal livello di inquinamento dei complessi urbani o se l’insorgenza delle allergie somatiche e respiratorie, sia in realtà indotta da una fragile situazione psichica.

Immerso in una luce bluastra dalla fotografia di Máté Tóth Widamon, Eden segue i rituali quotidiani della donna, interpretata da Lana Baric, nel tentativo di organizzare un ecosistema privato, rispetto a quello imposto dalle sue condizioni di salute. L’isolamento, che nel cinema della regista ungherese è il propellente, sociale e interiore, per innescare vere e proprie anti-drammaturgie dello spazio, a partire dal confinamento di identità inerti e annichilite nella reiterazione di movimenti e abitudini, qui allude a qualcosa di ulteriore rispetto all’osservazione di corpi plasmati dagli stereotipi circolanti.

Eva cerca di attivare un processo di negoziazione dei significati cercando una via per esistere oltre le limitazioni imposte, attraverso il corpo come principio di realtà.
Tutto il sistema di simulazione scientifica e la possibilità di mettere nuovamente Eva al centro del mondo sociale, provengono dall’immaginario del cinema di fantascienza e se in parte ricordano l’orizzonte desolato di Safe, il film di Todd Haynes interpretato da Julianne Moore, la riflessione sullo spazio domestico conduce altrove e verso le possibilità di rifondare una rete di relazioni empatiche attraverso la riscoperta della sensorialità.

Le rare uscite di Eva avvengono dentro una tuta alimentata come quella di un astronauta, un contrasto anche percettivo sul quale la Kocsis restituisce il senso di un’esplorazione aliena tra i confini di un contesto famigliare e quotidiano.

La sala di un concerto, un negozio di animali, un fazzoletto di prato ritagliato tra la pervasività del cemento e il modo in cui l’esplosione del livello emozionale ricrea, ogni volta, l’esperienza di quei confini.

Su questo avvicinamento progressivo alle cose, Eden basa tutto il dialogo tra Eva e András, sempre più distante dalla prassi terapeutica e più vicino alla gentile invasione di uno spazio privato, nel rischio reciproco di attivare le dinamiche della condivisione.

Dallo scarno teatro dell’isolamento individuale, Eden sembra ricostruire l’immaginario intimo di una coppia che riduce all’essenziale gesti e oggetti della vita in comune, quasi per raccontare, nello spazio della separazione assoluta, la trasformazione e la risemantizzazione di quei segni.

Nella società di massa dove il soggetto è superficie, Eva combatte e riscopre continuamente il proprio corpo vivo come strumento chiasmatico, ovvero in quell’intreccio di soggetto e oggetto, immanenza e trascendenza.

La scelta del formato panoramico, mentre si apre ai grandi spazi della città per evidenziare l’incedere esplorativo di Eva in una serie di “quadri” iperrealisti, sovrappone le dimensioni ultra-visive delle ottiche al perimetro angusto dell’appartamento, dove l’esperienza tattile cerca disperatamente una via per esplodere, non solo nella danza solitaria della donna, ma nel desiderio di un contatto con András, trasduttore dell’esperienza mondana. Eden è quindi anche una drammatica conquista del tatto oltre il visibile dei piani e dello sguardo panottico medicale. La dimensione affettiva del sentire passa attraverso il corpo fragile di Eva nell’esperire il contatto con le cose, oltre la paura di toccarle. Inquinamento o reazione psicosomatica, mente o corpo? Avvelenati, in entrambi i casi, ma intrecciati, ridisegnano la soglia di un luogo inospitale, dalla casa al globo.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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