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Ėduard Artem’ev: oltre i limiti del suono (1937-2022)

Ėduard Artem'ev è morto lo scorso 29 dicembre all'età di 85 anni. Il compositore russo, celebrato per la sua collaborazione con Tarkovskij da "Solaris" fino a "Stalker" è stato un pioniere della ricerca elettronica e della sperimentazione timbrica, ma ha anche legato la parte più consistente della sua carriera ad un linguaggio normativo e tradizionale, connesso al cinema di Nikita Mikhalkov. Ne parliamo con un lungo approfondimento

Nella raccolta di brani prelevati dal repertorio di J.S. Bach, prodotta per la Columbia da Rachel Elkind e da Wendy Carlos, quando la sua identità di genere era ancora quella di Walter, i timbri del Moog spingono le possibilità armoniche delle composizioni originali verso nuovi territori.
Il progetto, discusso insieme a Robert Moog a partire dall’evento newyorchese dell’Audio Engineering Society, anno 1964, si estenderà fino allo sviluppo di un sintetizzatore modulare, personalizzato sulle esigenze estetiche della musicista statunitense.
La collaborazione effettiva comincia nel 1966, mentre Switched-on Bach esce due anni dopo, spezzando la cornice dell’ambito “colto” entro la quale si era articolata la ricerca intorno ai synths.

Il numero di oscillatori, le funzioni e il controllo del pitch, oltre all’adozione di una tastiera sensibile al tatto, fino a quel momento totalmente fuori standard, erano sollecitazioni di Wendy indirizzate al talento tecnico di Bob, a conferma di una sinergia specifica tra l’ingegneria del dispositivo e le strutture armoniche immaginate.

Artem’ev: Variazioni timbriche su Bach

Dodici anni dopo, l’etichetta sovietica Melodiya pubblica una raccolta collettiva firmata da alcuni compositori contemporanei russi. I nomi sono quelli di Yuri Bogdanov, Vladimir Martynov e soprattutto Ėduard Nikolaevič Artem’ev. Tra alcuni frammenti della tradizione novecentesca, da Debussy e Prokofiev, insieme alle composizioni originali di Martynov, in Metamorphoses emerge il lavoro di Artem’ev su alcuni estratti dal repertorio bachiano.

Il tentativo è quello di applicare l’uso dei sintetizzatori al patrimonio sonoro di diverse epoche, secondo principi simulativi che consentissero di avvicinarsi ai suoni di strumenti conosciuti. Ma la strategia non è semplicemente mimetica, perché nelle intenzioni di Metamorphoses c’è l’ambizione di creare un nuovo sistema sonoro, capace di suggerire forme timbriche inedite e mai sentite, nella metamorfosi tra suono organico e risemantizzazione elettronica.

Se il progetto non appare così distante da ciò che Wendy Carlos aveva già codificato in lungo e in largo sino a quel momento, la ricerca di Artem’ev era partita molti anni prima e quasi in contemporanea alla pubblicazione di Switched-on Bach, fondando i propri principi sulla struttura armonica di una cantata del grande compositore tedesco.

L’occasione è legata alla prima delle tre collaborazioni di Artem’ev con il regista russo Andrej Arsen’evič Tarkovskij, durante la lavorazione di Solaris, il film prodotto dalla Mosfilm nel 1972 e tratto dall’omonimo romanzo di Stanisław Lem. La cellula originaria per il lavoro di Artem’ev è il preludio sul Corale Ich ruf’ zu dir, Herr Jesu Christ, BWV 639. Nella destinazione organistica del brano, la varietà libera della melodia viene associata ad un accompagnamento che procede in due modi distinti, il primo di evidente mobilità, mentre il secondo diventa base della struttura armonica.

In un’intervista del 2011 e nei contributi successivi all’edizione Criterion di Solaris, Artem’ev spiega la tecnica del cantus firmus di derivazione gregoriana utilizzata da Bach come base per sviluppare la scrittura dei suoi preludi per organo. Da parte sua, Artem’ev utilizza il preludio sul corale come nuovo ancoraggio da cui partire per sviluppare il nucleo centrale della musica per Solaris, perfettamente accordata sulle architetture iconologiche, visuali, filosofiche e armoniche concepite da Tarkovskij. Il preludio è per Artem’ev il cantus firmus da cui poter costruire un nuovo linguaggio.

In “Scolpire il tempo” (Ubulibri 1988 pag. 148), Tarkovskij definisce la realtà mondana anche attraverso la varietà di risonanze. Imparare ad ascoltare i rumori del mondo con la dovuta attenzione, secondo la visione del regista russo, renderebbe infatti l’impiego della musica niente affatto necessario al Cinema.

Il suono pensato insieme ad Artem’ev ne Lo Specchio per esempio, doveva avvicinarsi ad un’eco poeticizzata, tra fruscii e sussurri. Tarkovskij in questo passaggio dei suoi scritti, definisce perfettamente il ruolo mimetico e allo stesso tempo votato all’astrazione della musica elettronica; può infatti riprodurre la convenzionalità di suoni e rumori conosciuti, ma anche avvicinarsi agli stati interiori dell’essere.

Ecco che il procedimento a cui ricorre Artem’ev è descritto in termini teorici da Tarkovskij come un’alchimia deprivata della sua origine specifica, tanto da potersi confondere con una nuova risonanza organica del mondo esteriore ed interiore.

La tradizione musicale occidentale ha progressivamente perfezionato i metodi osservazionali per riprodurre i suoni della natura fino a staccarsi da essa. Dall’apparato strumentale utilizzato in funzione simbolica, fino all’impiego delle tecniche di registrazione su nastro del ventesimo secolo e soprattutto all’estensione della gamma sonora al mondo dei rumori, si arriva al suono inteso come materia ed infine come oggetto disgiunto dalla sua origine, nelle manipolazioni aurali della musique concrète di Pierre Schaeffer e Pierre Henry.

Se questa dimensione del suono come materiale, ricorre nella frammentazione aurale che possiamo sperimentare nei film di Tarkovskij attraverso la ripetizione e la recursività di alcuni rumori, dal canto di un uccello alle gocce d’acqua, ciò che pilota la costruzione del discorso sonoro è l’attenzione ai processi, come forme organiche autoctone con il loro specifico “sistema circolatorio”.
Registrazione, sintesi e trasformazione sono quindi alla base della musica di Artem’ev legata alle collaborazioni con il regista russo, qualità che non possono essere slegate dalla concezione Tarkovskijana del Cinema, tra immagine e suono. L’assimilazione di forme e linguaggi conosciuti con intuizioni che anticipano tecniche di sound design, attraverso l’applicazione libera dei principi che sono anche alla base della musica acusmatica e della ricerca elettroacustica, trovano possibilità empiriche nuove nel lavoro di Artem’ev con i sintetizzatori.

Per Solaris, il musicista russo utilizza un ANS photoelectron, tipologia di synth sviluppata e portata a compimento nel 1958 da Evgeny Murzin e strumento principale nelle ricerche dell’Experimental Electronic Music studio di Mosca. Artem’ev aveva incontrato Murzin nel 1960 dopo aver completato gli studi al conservatorio di Mosca, specializzandosi in composizione con Yuri Shaporin. Dal 1967 in poi sperimenta sulle possibilità di “scolpire il suono”, esasperando i concetti di energia e durata ed elaborando una personale concezione di spazio timbrico, a partire dall’infinita combinazione di variazioni policromatiche.

Dal mondo sonoro “conosciuto” di Bach, la rielaborazione di Artem’ev serve come cantus firmus radicato in una tradizione ineludibile, per scomporre i suoni e sovrapporre architetture di altri mondi, caratterizzati da rumori e droni che sembrano anticipare la qualità allucinatoria e mnestica delle recenti volgarizzazioni ipnagogiche, senza quella rilettura postmoderna dei linguaggi di consumo necessaria ad un secolo di “bave” e “detriti”.

Segue quindi le indicazioni di Tarkovskij nel concepire suoni e rumori rielaborati attraverso le possibilità timbriche del sintetizzatore, per assegnare alla registrazione del mondo esterno un’espressività emotiva individuale e del tutto specifica. Come dirà nella già citata intervista per Criterion, “La musica in quanto tale [a Tarkovskij] non serviva”.

Visibile e invisibile, udibile e inaudibile rappresentano la soglia continuamente attraversata in entrambe le direzioni dal suono concepito da Artem’ev per Tarkovskij.

Artem’ev: Risonanze extrasensibili

Quell’amalgama di suoni, parole, amplificazioni e dilatazioni ambientali, che abbiamo già visto come elementi recursivi nel disegno aurale del cinema Tarkovskijano, sono anche parte dell’architettura compositiva di Artem’ev e vengono portati alle estreme conseguenze nella frammentazione de Lo specchio, dove l’impiego del Synthi 100 di EMS diventerà uno standard fino a Stalker, terza e ultima collaborazione con Tarkovskij se escludiamo la versione teatrale dell’Amleto, caratterizzando in seguito tutti i suoni del già citato Metamorphoses.

Proprio per Stalker Artem’ev crea un sistema di risonanze capaci di sondare una dimensione extrasensibile, dove alla presenza pervasiva dell’acqua nel film di Tarkovskij, tra flusso e apparente staticità, viene associata la combinazione di timbri modificati per costruire un corrispettivo aurale dell’immagine. In particolare ricrea il suono del Tar, strumento della tradizione azero-iraniana, la cui frequenza viene radicalmente abbassata, tanto da avvicinarne la qualità ai suoni di alcuni strumenti indiani, come la Tambura.

Per il compositore russo è un tentativo di disegnare lo spazio percettivo attraverso la variazione timbrica, usando la sintesi sonora come possibilità illimitata di modificare l’origine acustica degli strumenti tradizionali impiegati o simulati, in base alle necessità dell’apparato visuale. Nell’intervista concessa a Maya Turovskaya per il libro sul cinema di Tarkovskij pubblicato nel 1991 si comprende quanto la ricerca del compositore sia in quel momento strettamente legata alle intuizioni del regista. Artem’ev racconta la complessa e laboriosa relazione creativa, soprattutto durante le registrazioni con i musicisti. Tarkovskij è rigorosamente assente durante le sessioni, per non farsi influenzare da aspetti sonori che avrebbero potuto colpirlo positivamente in base a questioni di gusto del tutto indipendenti dall’insieme della sua opera. Ciò che lo interessa è quindi la modalità con cui la musica riesce a combinarsi con tutti gli elementi del film. Non solo l’immagine, ma anche la parola, i rumori della vita reale e di quella interiore. L’unica volta che presenzia alle registrazioni delle musiche per Stalker è per chiarire un concetto vicino all’idea di meditazione del Buddhismo zen.

La fusione della cultura orientale con quella occidentale è l’obiettivo del regista russo, attraverso la dispersione dell’io verso una dimensione cosmica. Artem’ev gli fa sentire il cantus firmus di Pulcherrima Rosa, rispetto al quale Tarkovskij rimane colpito, ma chiedendo una trasformazione radicale, in modo che la forma per esprimere lo stesso concetto sonoro fosse del tutto nuova, così da costruire un ponte verso l’oriente.
Le sessioni con i musicisti non sono convincenti per Tarkovskij ed è in quel momento che la sintesi viene sfruttata da Artem’ev per unificare il suono del flauto con quello modificato simile alla Tambura, costruzione sonora che sarà utilizzata per il sogno dello Stalker e per i titoli di testa del film. Si assiste quindi ad un superamento della mimesi verbale del commento sonoro, verso la concezione stratificata e pittorica di Tarkovskij .

Tradizione e sperimentazione

Artem’ev in questa fase della sua carriera ed esclusivamente con Tarkovskij mette a punto ciò che ha assimilato durante il lungo apprendistato che occupa tutti gli anni sessanta. La formazione tradizionale e istituzionale deve essere inserita e compresa in un contesto dove confluiscono le mutazioni dell’Unione Sovietica nel passaggio dal Disegelo all’era della Stagnazione, incluso il ruolo dell’apparato censorio nella produzione musicale e in particolare nelle partiture composte per il Cinema. Il ruolo della censura editoriale e in particolare quello della Direzione principale per gli affari letterari ed editoriali il cui acronimo russo era Glavlit, eccede spesso l’obiettivo originale con un’estensione verso altri media, contro i quali oppone un sistema di difesa e protezione dei principi sovietici, anche ricorrendo all’imposizione di contenuti, linguaggi e interpolazioni legate alla tradizione. La stessa Unione dei Compositori Sovietici, il sindacato fondato da Stalin nel 1932, opera un controllo radicale sull’ammissibilità delle partiture, delegittimando quelle più complesse, sperimentali e ardite negli accostamenti timbrici. Il funzionario più noto della struttura, Tikhon Khrennikov, indisturbato censore fino all’era Gorbachev, oltre ad aver reso difficili le carriere di Prokofiev, Shostakovich e Khachaturian con operazioni mirate di epurazione statale all’interno del più ampio controllo delle arti noto come Zhdanovshchina, continua sulla stessa linea del 1948 anche alla fine degli anni settanta, attraverso la denuncia di sette musicisti, rei di aver partecipato senza approvazione ai festival di Colonia e Venezia, ma censurati pubblicamente per la loro musica, composta “solo per il gusto di combinazioni timbriche insolite ed effetti eccentrici [dove] il pensiero musicale è assente e quando è presente, viene annegato irrimediabilmente in una corrente di rumore, grida violente, acute o mormorii oscuri […] costoro possono essere considerati rappresentanti della nostra musica e del nostro paese?”.

Lo stesso tipo di controllo, in relazione ad una maggiore o minore adesione timbrica alla propria tradizione di riferimento e alle forme dell’identità nazionale, muta profondamente lo sviluppo della musica rock in URSS. Sotto i medesimi controlli statali, questa viene piegata all’introduzione di elementi provenienti dalla tradizione popolare. La stessa centralità della canzone popolare caratterizza la musica per il cinema a partire dalla nazionalizzazione del 1919, fino a raggiungere l’apice durante la seconda guerra mondiale, tanto da consolidare un vero e proprio ecosistema di attori-cantanti che determineranno la popolarità della musica per il cinema anche attraverso questo vettore, basta pensare ad un compositore che ha lavorato molto anche per la televisione come Mikael Tariverdiev, oggetto di una recente riscoperta occidentale grazie a Fire Records e il cui repertorio spazia dalla canzone ai bozzetti pianistici di derivazione Jazz, mantenendo sempre al centro la dimensione comunicativa e identitaria della melodia.

Il lavoro di Artem’ev, in termini di peso specifico, ma anche di qualità formale, non è certo sbilanciato dalla parte di Tarkovskij, la cui collaborazione assorbe tutta la fase sperimentale e laboratoriale del suo apprendistato, spingendola oltre, mentre la maggior parte delle opere scritte per il cinema dal compositore russo, si lega indissolubilmente e nel tempo alla carriera di Nikita Mikhalkov, a partire dai primi anni settanta fino ad oggi.

Una dimensione quantitativa che confina l’opera di Artem’ev in uno spazio molto più tradizionale, in termini armonici, timbrici ed estetici.

Per quanto riguarda la formazione e gli studi, Artem’ev era un musicista colto nell’accezione accademica del termine, legato inizialmente alla fascinazione per il novecento di Scriabin, Debussy e Stravinsky, ma anche all’interesse per l’opera italiana, affrontata prima del conservatorio, grazie ad una passione condivisa in famiglia e agli interessi dello zio pianista. Se durante gli studi si avvicina a suoni, idee e strategie di Edgar Varèse e Pierre Boulez, più volte citati come musicisti da lui amati, è l’opera di Puccini a rappresentare un ritorno costante nelle sue costruzioni orchestrali. La connessione ideale con Mikhalkov e la sua melomania, passa da qui, e assegna alle opere scritte per il regista russo una chiarezza armonica e una limpida simmetria dello schema melodico che niente hanno a che vedere con il lavoro di decostruzione del suono elaborato insieme a Tarkovskij.

Se per i 180 minuti de “Il Barbiere di Siberia” (1998) si serve di un’imponente orchestra di cento elementi per creare un impatto virile a cui contrappone alcuni strumenti della tradizione, in “Oblomov” (1980) utilizza linee semplici e cristalline disegnate dall’arpa, dal vibrafono e dal pianoforte per definire la femminilità di Olga. Una dimensione figurativa lontanissima dalla spoliazione dell’io che avviene nella trilogia Tarkovskjana e che si avvicina maggiormente alla convenzione della musica per il cinema, nel riscrivere la teoria degli affetti come razionalizzazione del sentimento oppure descrizione dell’interiorità del personaggio.

Artem’ev con Mikhalkov si inserisce in un contenitore che può comprendere di tutto, da Morricone a John Williams, sin dalle collaborazioni più antiche, come quella per le musiche di Amico tra i nemici, nemico tra gli amici (1974) dove gli echi western sono una rilettura dei codici tra Jazz, rock e struttura sinfonica tipici del compositore italiano, ma senza toccare le vette sperimentali in termini timbrici e armonici di un certo Morricone di quegli anni.

Se allora la sperimentazione nella musica di Artem’ev viene ricombinata in termini istituzionali con il suo coinvolgimento internazionale nell’ICEM (Confederazione Internazionale di Musica Elettroacustica) oppure con le iniziative legate allo studio e all’approfondimento della musica elettronica russa, gli anni della ricerca timbrica sono circoscritti tra il lavoro con Tarkovskij e i film musicati negli anni precedenti alla loro collaborazione, tra cui Mechte navstrechu, produzione di fantascienza diretta nel 1963 da Mikhail Karyukov e Otar Koberidze, dove insieme a Vano Il’ič Muradeli, un’altra vittima delle censure culturali di Stalin, già sperimentava i suoni del sintetizzatore fotoelettrico microtonale per definire quei suoni sci-fi legati a mondi siderali e inesplorati, con i quali lavorerà durante l’apprendistato laboratoriale con Murzin.

Con Mosaic, opera composta nel 1967, porta a compimento le ricerca con il synth ANS elaborando con i suoni una vera e propria architettura dello spazio e ottenendo riconoscimenti nei festival di settore a Bourges, Colonia, Venezia e Firenze. Nel tentativo di sondare i principi e le teorie della prospettiva attraverso il suono, elabora infinite variazioni da un timbro unico, per cercare relazioni matematiche e allo stesso tempo evocative dal piccolo al grande, dal micro al macro.

Mi piace giocare con lo spazio – dirà in un’intervista degli anni novanta in riferimento all’esperienza con l’ANS – perché capisco il valore intrinseco del suono, la sua capacità di racchiudere macrocosmo e microcosmo”.

Per Artem’ev in questa fase quindi è il suono stesso che è capace di fornire informazioni diverse da quelle meccaniche, denunciando una sua propria logica e una mente propria, fino a lambire sfere inaccessibili.

A partire dal 1968, per Artem’ev è fondamentale l’assorbimento dell’estetica rock contaminata, tanto che citerà spesso l’esperienza dei primi King Crimson, la sperimentazione tedesca in ambito rock da Ash Ra Tempel, fino ai lavori successivi di Schulze, con e senza i Tangerine Dream. Questa dimensione metalinguistica gli consente di affrontare l’avventura cinematografica con mezzi nuovi e probabilmente rimarrà centrale nell’amalgama strumentale che assemblerà anche durante la fase più tradizionale della sua carriera.

Negli anni ottanta, quando pubblicherà il già citato Metamorphoses, si aggiunge una dimensione “popular” che lui stesso spiega con il termine di simbiosi. Rispetto alla sintesi, la simbiosi è per Artem’ev la confluenza dei mezzi di espressione che per un musicista è possibile padroneggiare, dall’elettronica al lessico rock, dalla musica popolare alla tradizione del novecento, dove l’elettronica stessa non è altro che un “hub” capace di mettere insieme tutti questi elementi.

Con questi stessi principi, alla fine del decennio riscrive la trilogia di Tarkovskij creando un ciclo di 13 composizioni ispirate a quei film. Partendo da Solaris, Lo Specchio e Stalker, ricrea nuove associazioni aurali con quelle immagini e coinvolge l’etichetta Olandese Boudisque che nel 1990 pubblica un CD in seno alle celebrazioni dell’anno Tarkovskijano deciso dall’UNESCO. Il risultato è radicalmente diverso dal lavoro svolto insieme al grande regista russo e nell’operazione di simbiosi, perde la magia decostruttiva che aveva caratterizzato gli originali, per un surplus di senso non necessario.

Del resto, questa è la fase in cui Artem’ev consolida ancora di più la sua relazione con le istituzioni russe, fondando l’Associazione di musica elettroacustica di cui sarà presidente.

I lontani anni pionieristici, centrali nella storia dell’elettronica russa, gli avevano consentito di studiare i processi di trasformazione timbrica legati allo spettro sonoro, introducendo tecniche di manipolazione e nuove vie espressive, sulla scia di quella preistoria che include nomi come Lev Termen, Yevgeny Alexandrovitch Sholpo e altri pionieri che hanno indagato la relazione tra strumento e dispositivo, nel tentativo di superare i limiti della tradizione in termini almeno timbrici.

Le ricerche di Murzin cominciano alla fine degli anni venti e arrivano a completare il primo prototipo di ANS nel 1958, il cui acronimo era una dedica alle iniziali di Scriabin.

Artem’ev è colui che ricava dal dispositivo progettato da Murzin, il massimo di espressività, definendo aspetti che all’elettronica accademica non erano consentiti, tra cui la morfologia e la mutazione di timbri artificiali, capaci di elaborare immagini create dal suono stesso, nella definizione di una cornice spaziale entro cui liberare i suoni. I timbri, apparentemente riconoscibili come accade con le successive trasformazioni del suono orientale in Stalker, individuano un’area strumentale inesistente, basata sulla surrealtà dei principi e degli elementi in gioco.

Fino all’era Khrushchev e quindi prima di ricevere i riconoscimenti per Mosaic (1967) si sente di fatto un emarginato. Rispetto ai colleghi legati alla tradizione non riesce a produrre, perché sempre in una fase laboratoriale e d’analisi del suono, lo studio sulle possibilità di ANS quindi lo colloca in una posizione di superamento dell’ambiente accademico. Questo, secondo Artem’ev, è infatti legato maggiormente alle variazioni e allo studio dell’esistente, a partire dalla lezione di maestri come Varèse e Xenakis. Le mutazioni dei suoni originali appartenenti al mondo della natura e delle “cose”, radicalmente orientate dalla collaborazione con Tarkovskij, in Mosaic individuano un banco di prova dove lo stesso Artem’ev definisce i confini teorici della sua ricerca: modificare i suoni attraverso le infinite variazioni del timbro, ma in modo che la loro sostanza invariata, fosse percepibile dal subconscio degli ascoltatori. Si crea allora un’impressione soggettiva dello stesso, come preesistente in termini mnestici, invece di definirne le qualità per sé. I confini dello spazio acustico si spezzano e si aprono, fino a precorrere l’estrema e radicale scomposizione ed erosione dei suoni che verrà fatta per il cinema di Tarkovskij.

Sono numerosi i processi che attiva, ma passano generalmente dal taglio degli armonici e dalla loro decostruzione in una nuova combinazione spontanea, affinché si compia un successivo spostamento dei registri. La manipolazione dei frammenti è come un gioco sui riflessi scomposti di un’immagine, variazione dopo variazione, fino ad attivare processi inversi di ricostituzione dell’insieme.

Rispetto all’ermetismo elitario dell’accademia, Artem’ev punta in qualche modo a sollecitare una dimensione emozionale superando la convenzionalità dei mezzi di rappresentazione sonora, tanto che i suoi metodi e il suo lavoro pionieristico con l’ANS non trovano eguali nell’ambiente.

Questa dimensione circoscritta da Mosaic a Stalker, per offrire un arco temporale approssimativo, non impedisce ad Artem’ev di sviluppare parallelamente un linguaggio più convenzionale per ragioni alimentari, attraverso la collaborazione con Nikita Mikhalkov, che come abbiamo visto si muove su coordinate molto tradizionali e legate al progressivo e inesorabile scivolamento del cinema del regista russo nella retorica culturale del nuovo regime di Vladimir Putin.

La stessa parantesi Hollywoodiana al seguito di Andrei Konchalovsky, per Artem’ev rappresenta la saldatura di un linguaggio solidamente ancorato all’evocazione poetica forzata nel dialogo tra musica e immagine.

I ruoli istituzionali che Mikhalkov ha ricoperto dal 1993 fino ad oggi, rappresentano una chiara adesione alla dimensione celebrativa del potere. Presidente dell’Unione dei registi russi rieletto varie volte, membro della Commissione della Federazione Russa per l’UNESCO a partire dal ’95, fino alla produzione di forme di propaganda somministrate attraverso la prassi del vlogging.

La piena sintonia con le posizioni genocidiarie di Putin dopo l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022, riciclano le forme conosciute della propaganda offrendo un quadro molto chiaro sulle modalità di soft power che annichiliscono e riducono la creatività degli artisti a strumento simulacrale di un regime.

Se Artem’ev non ha raggiunto queste forme volgari di esposizione politica, ha comunque aderito in modo esplicito a tutte le forme celebrative approntate dal governo russo, fino ai recentissimi festeggiamenti per il suo 85/mo compleanno voluti dalla Federazione e in presenza di Putin, che hanno preceduto di qualche giorno il suo ricovero per polmonite bilaterale con l’aggravamento delle condizioni cardiache che hanno causato la sua morte.

Inevitabile forse, ma altrettanto triste, che le speranze di un compositore ancora brillante e geniale nella Russia delle censure sovietiche, speranze mitigate nel tempo da scelte estetiche e culturali discutibili, abbiano raggiunto il tramonto con una festa allestita dal potere.

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