lunedì, Dicembre 23, 2024

Eisenstein in Messico di Peter Greenaway: la recensione

Questa è la storia di un trentatreenne vergine che nel 1931 va in Messico, patria di una rivoluzione persino precedente a quella russa, gira centinaia di chilometri di pellicola, non ci ricava nulla ma in compenso perde la verginità. È la storia di un corpo, quello di Сергей Михайлович Эйзенштейн alias Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.

Da qualche anno a questa parte, Peter Greenaway studia le origini della creatività. Nel 2007 ha dedicato a Rembrandt “Nightwatching”, oscuro film di tableaux vivants, e ora pare più che mai immerso nella biografia di Ėjzenštejn, non solo il cineasta: anche il poliglotta, l’umorista, il bambinone. L’uomo i cui capelli hanno ispirato “Eraserhead”. Il giramondo che si è fatto immortalare in scatti squisitamente autoironici, a volte degni dei fratelli Marx. La tesi di Greenaway è cristallina: il motore dell’Ėjzenštejn maturo, post Sciopero-Potemkin-Ottobre, è il sesso che prima non aveva mai fatto. E che una volta scoperto, ha sbattuto in secondo piano il suo lavoro di regista rivoluzionario.

Eisenstein in Guanajuato non è un film sulle riprese eterne, caotiche e inconcludenti di “¡Que viva México!”, fallimentare progetto finanziato da Upton Sinclair – l’unico scrittore americano che vendeva vagonate di libri in Unione Sovietica – e dalle cui rushes espropriate al regista sono stati montati, alla meno peggio, tentativi di film quali “Lampi sul Messico” (1933), “Eisenstein in Mexico” (1933), “Death Day” (1934), “Time in the Sun” (1940). Buon ultimo, “¡Que viva México!” (1979).

No. Questo è un film sulla fisicità di Ėjzenštejn (interpretato dall’attore finnico Elmer Bäck), su quello che lui stesso definisce un «corpo da clown», e sull’uomo che per primo ne ha fatto qualcosa, di questo corpo: il padre di famiglia messicano Jorge Palomino y Cañedo (Luis Alberti). Al centro della narrazione vi è infatti il loro progressivo avvicinamento, la titubanza desiderante di Sergej, il fascino risoluto di Palomino. Motivo per cui le autorità russe si sono rifiutate di erogare un finanziamento. Niente di nuovo sotto il sole, per quanto non ci troviamo dinanzi a un film omoerotico, ma piuttosto a un biopic goliardico e sghembo, forse il primo titolo di un progetto in due parti.

Sempre in bilico tra Abel Gance, Walerian Borowczyk e Vittorio Sgarbi, il regista britannico non si smentisce. Eisenstein in Guanajuato è Greenaway allo stato puro: ridondante, scatologico, feticista (scarpe e piedi maschili a ‘sto giro), ludico, nozionista fino allo stremo. Eppure, rispetto a quanto fatto negli ultimi vent’anni, da “The Pillow Book” in poi, questo film vanta una vitalità autentica, la stessa della coloratissima festa dei morti messicana, con le maschere da teschio e gli scheletri gonfiabili. Un’allegra guasconata.

I tempi d’oro delle colonne sonore di Michael Nyman e delle immagini di Sacha Vierny sono molto lontani e a volte la sceneggiatura incappa in dialoghi tra il camp e l’imbarazzante, ma il teatro dell’autore britannico regge, anzi, è meno claustrofobico e autoreferenziale del solito. Complice Florentijn Bos, il regista sperimenta deformazioni prospettiche ed effetti speciali digitali spudorati, che ricordano il Rybczyński dantan – e possono spiazzare lo spettatore poco avvezzo ai giochi al massacro del Greenaway anni Ottanta. Lo schermo si splitta in tre, certe battute in primissimo piano vengono ripetute a raffica, appaiono le effigi di personaggi evocati per puro gusto di name dropping, fotografie originali di Ėjzenštejn in America, i colori si spengono cedendo il posto al bianco e nero o impazziscono come in un caleidoscopio paesaggistico; a volte irrompono scene di Ottobre o del Potemkin, le mosche, le larve.

Ma questa ricchezza visiva un po’ sterile, fatta di vezzi, strizzate d’occhio e intuizioni buttate lì, non si pappa il film. Non si perde il focus fisiologico, corporale, da coming of age fuori tempo massimo. Da rivoluzione, stavolta, sessuale. Oltretutto corredata da scene che lasciano ben poco all’immaginazione, con buona pace del famoso montaggio analoggico usato anche da Gerard Damiano in “Gola profonda”. Dopo il ventre dell’architetto, il culo del cineasta rivoluzionario. ¡Que viva Greenaway!

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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