[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#eb9e34″ class=”” size=””]I Genitori adottivi Ema (Mariana Di Girolamo) e Gastón (Gael García Bernal) sono spiriti liberi dalla vocazione artistica, impiegati in una compagnia di danza sperimentale. Le loro vite sono gettate nel caos quando il figlio Paolo viene coinvolto in un violento incidente. Il matrimonio si sgretola sulla scia di una decisione traumatica, abbandonare il figlio, tanto da consentire ad Ema un’odissea di liberazione e scoperta di sé, ballando e seducendo. La strada verso una vita più audace. Ema, ritratto incendiario di una donna in fiamme.[/perfectpullquote]
La prima scena di Ema ci istruisce riguardo a un sovvertimento dei poteri. Il fuoco divora un semaforo: una legge che sopraggiunge per giudicare il mondo devasta un sistema di regole precostituite. Questa legge imprigiona ciò che avviluppa, è anarchica ma non liberatrice, anche se si presenta come fonte di redenzione e di semantizzazione. La restante parte dell’ultimo film di Pablo Larraìn è pensato per mostrare l’incarnazione di questa legge su più livelli: formale – quindi sul piano meta testuale della creazione artistica dichiaratamente autocosciente – e contenutistico – quindi nella rappresentazione delle conseguenze della sua azione incarnata nel mondo.
Larraìn sceglie di dichiarare e comunicare il livello formale, rimuovendo dall’invisibilità le marche di rappresentazione, ma di tenere nascoste le dinamiche esplicite della narrazione, lasciando ai costrutti visivi il compito di completare un rebus emotivo e narrativo altrimenti solo spiegato alla fine.
La composizione del piano ci racconta di una prigionia e di un codice semiotico adagiato, programmato sulla realtà per tenere i personaggi all’interno di una circolarità ipnotizzante. A questo stadio tutti i personaggi, anche se il discorso vale soprattutto per la giovane donna protagonista, Ema, sono prigionieri della forma in cui il loro autore li ha inseriti; vivono sdraiati nel canale ottico prodotto dal suo punto di vista ma non mirano ad alcun punto di fuga, sono tatuati nella grana dell’immagine, non possono uscirne e per quanto tentino di evadere, di sgomitare per guadagnare una dimensionalità ulteriore, rimangono fermi nella loro posizione.
Il film è disseminato di tracce – come le geometrie del corpo di ballo, il montaggio delle scene erotiche, l’incastro di più profili in una stessa filigrana – che sottolineano anche con perentorietà questa costrizione.
A livello narrativo sarebbe un peccato disvelare le modalità con cui il regista – già noto per le sue sceneggiature a dispiegamento progressivo – costruisce l’azione del suo personaggio principale.
Ema è un tuono danzante fatto persona che per compiere un obiettivo brucia l’interezza della sua rete relazionale: il suo gesto è in tutto simile al fuoco, perché respira per consumare l’oggetto (la persona) che colpisce e perché divora in un loop continuativo.
La forza che tiene prigionieri è espressa quindi attraverso una forma che tiene in cattività i suoi personaggi e una protagonista che incarna le dinamiche di questa legge: e questa forza è tanto terribile quanto indubbiamente bella, sublime perché terribile e incantata.
Il discorso teorico di Larraìn si rivela solo al completamento di entrambi i progetti, facendo corpo in una domanda che immerge la testa nella combustione.
Perchè rigettiamo e allo stesso siamo attratti da questa potenza consumatrice? Siamo forse sue vittime? Siamo forse suoi emissari?