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Emily di Frances O’Connor: recensione

Il primo, deludente film di Frances O'Connor come regista, cerca di contaminare mitopoiesi e biografia, in un'apparente revisione delle stereotipie che hanno accompagnato il racconto della vita di Emily Brontë. Unica eccezione, Emma Mackey, capace di abitare una vera e propria possessione, nonostante tutto. Nelle sale italiane dal 15 giugno

É molto probabile che Frances O’Connor sia rimasta in qualche modo segnata dall’esperienza con Patricia Rozema sul set di Mansfield Park. La sua Emily, per il metodo con cui biografia e invenzione si intrecciano, ricorda le scelte della regista canadese e attiva sconfinamenti molto simili, ma invertendo le polarità degli elementi in campo.

Quel poco che sappiamo della vita di Emily Brontë passa attraverso la lente letteraria, la riorganizzazione della realtà operata dalla sorella Charlotte e quello che si può leggere su di lei nell’agiografica “Vita di Charlotte” scritta da Elizabeth Gaskell.

Proprio dalla maggiore delle sorelle Brontë , il film della O’Connor prende distanze molto nette, elaborando un antagonismo estremo tra le due e descrivendo l’autrice di Jane Eyre come una figura controversa, compressa e irrisolta.

Traendo probabilmente ispirazione dalle note biografiche vergate dalla stessa Charlotte per accompagnare l’edizione del 1850 di “Cime Tempestose” e di “Agnes Grey“, il primo romanzo di Anne, Frances O’Connor interpreta la descrizione di Emily fatta dalla sorella come una delegittimazione da rovesciare, tanto da individuare una sua verità tra mitopoesi e documenti.

La donna inadatta agli affari pratici della vita, senza alcuna saggezza mondana, ma con un “potere segreto che avrebbe potuto incendiare le vene di un eroe”, diventa una figura indomabile, incapace di scendere ai compromessi imposti dalla società Vittoriana e attraversata da un erotismo esplosivo e sofferente, troppo intenso per non disintegrare l’integrità delle maschere indossate dalla comunità.

Il tentativo di ristabilire una verità interiore passa però attraverso altre mitologie costruite intorno alle opacità biografiche, tanto da ricostruire tutto il campionario di oscure energie che per decenni, per esempio, ha accompagnato la descrizione di Haworth, il villaggio nello Yorkshire dove il Reverendo Patrick Brontë e la moglie Maria Branwell Brontë, si erano trasferiti nel 1820.

Una dimensione gotica sottolineata dalla tetra fotografia di Nanu Segal impostata sulla luce di quei luoghi, che traghetta il film nello spazio di un incubo artatamente visionario. Sedotta dalla possibilità di modificare radicalmente il mondo secluso e “banale” in cui le descrizioni di Charlotte hanno confinato il ritratto della sorella, O’Connor è scarsamente interessata a ricostruire filologicamente ambienti, cultura e occorrenze, come per esempio ha cercato di fare con strumenti diversi Juliet Barker e la storiografia più recente.

Scelta che evidentemente le ha consentito di far dialogare i personaggi di “Cime Tempestose” e alcune suggestioni prelevate dalle terre immaginarie di “Gondal“, con la cronologia biografica. Viene allora rielaborata la turbolenta immaginazione poetica attraverso figure che hanno realmente attraversato la vita di Emily, qui investite di una luce diversa.

O’Connor scrive il suo romanzo, servendosi per esempio del curato William Weightman, parte integrante della parrocchia di Haworth dal 1839 e accolto da Patrick come un figlio, per immaginarsi una tormentata relazione amorosa con Emily, così come l’influenza di Branwell, il fratello, viene spinta alle estreme conseguenze, determinando una dipendenza affettiva torbida e distruttiva.

La sensazione allora è che Emily sia un’operazione ibrida, che invece di sfruttare la contaminazione come rilettura critica di tracce e materiali, offrendo così un respiro diverso al mistero legato alla vita di Brontë, rimetta in scena stereotipie conosciute e ampiamente elaborate anche in versione metadiscorsiva.

Che a O’Connor manchi uno sguardo realmente personale è evidente dall’insistenza con cui estrapola da corpi e volti un tormento posturale. Tutte le esperienze di Emily con l’oppio, introdotte ogni volta dalla dilatazione della pupilla in close-up, suggeriscono una differenza flagrante tra intuizioni visuali e visione, superficie dello sguardo e messa in scena.

Non aiuta l’ingombrante colonna sonora di Abel Korzeniowski, che impostata sui suoni di un tardo Philip Glass e le ibridazioni tra voce e strumento di Colin Stetson che ormai sono state banalizzate ovunque, sottolinea in modo volgarmente accessorio sentimenti e rivoluzioni interiori, secondo un’applicazione imbarazzante della teoria degli affetti.

La forza di Emily allora è tutta concentrata nel corpo, negli occhi inquieti e nell’interpretazione di Emma Mackey, capace di abitare una vera e propria possessione nonostante tutto.

La sequenza dove Emily indossa una maschera per un gioco collettivo, sembra alludere a suggestioni teosofiche, tanto da infondere alla sovrapposizione tra volto e maschera, un’interpretazione spiritualista capace di svelare l’inconciliabilità tra il diaframma sociale e la creatività che scaturisce dal mondo interiore. Si tratta di un momento isolato, filmato dalla O’Connor con il lessico della tradizione cinematografica gotica e che rappresenta in un certo senso il motivo visuale ricorrente, nella definizione della personalità di Emily, mai riconciliata con la propria e l’altrui realtà.

Un frammento sin troppo breve, rispetto ad un film che non riesce ad uscire dalla cornice più normativa del cinema di ambientazione.

[Foto dell’articolo fornite da Ufficio Stampa Giampaglia/Locurcio]

Emily di Frances O’Connor (USA, GB – 2022 – 131 min)
Interpreti: Emma Mackey, Alexandra Dowling, Fionn Whitehead, Amelia Gething, Oliver Jackson-Cohen, Adrian Dunbar, Gemma Jones
Sceneggiatura: Frances O’Connor
Musiche: Abel Korzeniowski
Fotografia: Nanu Segal

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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