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En Attendant La Nuit di Céline Rouzet: recensione – Venezia 80

I vampiri sono tra noi. Il primo film di finzione di Céline Rouzet, in concorso nella sezione Orizzonti di Venezia 80, è un'anti-elegia disumana che spinge a riconsiderare l'umanità, tra politica della rimozione ed è espulsione di tutti i soggetti eccentrici, considerati già morti.

Gli anni turbolenti dell’adolescenza osservati dietro la lente del vampirismo hanno attraversato in lungo e in largo letteratura e cinematografia, fino a standardizzare le regole della narrativa Young Adult in una comfort zone fantasy che non sempre è riuscita a bilanciare le pulsioni dell’età acerba con lo sconfinamento dell’abietto fuori dai limiti identitari.

Céline Rouzet, legata all’immagine del reale e alla forma dell’inchiesta, affronta un territorio apparentemente alieno rispetto alla sua esperienza e realizza il primo film di finzione grazie ad una residenza cinematografica e ad altre opportunità laboratoriali.

En Attendant La Nuit è a tutti gli effetti un tragico racconto di formazione per certi versi vicino a quelle elaborazioni sul mito del vampiro, che dal seminale Thirsty hanno indagato l’energia pulsionale dell’adolescenza, spostando la soglia del fantastico nell’area dei desideri indicibili, scaturiti da una traumatica trasformazione fisica, psichica e sessuale.
Abbiamo citato il romanzo scritto alla fine degli anni novanta da M.T. Anderson per la mitopoiesi di un vampirismo non ereditario, sulle cui origini si ottengono più dubbi che certezze. Una condizione che isola il giovane Chris dalla comunità, a partire da quella nucleare.

Philemon, il personaggio ideato da Rouzet sulla base della sua esperienza famigliare, può solo nutrirsi di sangue. Oltre al nome, la cui etimologia greca si riferisce alla forza del bacio, la sua patologia non è manifesta. Sono i segni letterari e la stratificazione culturale di alcuni topoi a suggerircelo, tra cui il rischio letale di una prolungata esposizione ai raggi del sole.

È la madre a provvedere al suo mantenimento, come operatrice socio sanitaria infiltrata nel programma dei donatori che si offrono per le trasfusioni. Le sacche scartate per un minimo difetto, vengono raccolte e portate al figlio, le cui attitudini nutrizionali sono molto simili a quelle di Sasha, la giovane vampira del film di Ariane Louis-Seize, visto qui a Venezia.

Cambia il contesto e saltano via tutti i parametri più logori dell’immaginario gotico, a partire dalla relazione di Philemon con i genitori e la sorellina minore, una comune famiglia francese in fuga da una città di provincia all’altra, per proteggere la fragilità e la diversità del figlio.

Quello che già caratterizzava la clandestinità dei personaggi di Tomas Alfredson in Let the right one in, oppure la doppia vita del vampiro di Shunji Iwai, sospeso tra simulacro virtuale e gotico di cartapesta, non emerge più da una dimensione creaturale oppure rituale. Più vicina al disagio di John Amplas, la figura incarnata da Mathias Legoût-Hammond è quella di un escluso costretto a vivere ai margini della comunità e completamente schiacciato dalla sua condizione come se fosse una parafilia distruttiva, o una malattia degenerativa di origine sconosciuta. La linea del contagio non è contemplata, né in termini ereditari né come assorbimento dei vivi nello spazio di una non-morte perenne.
Il genere serve allora alla regista francese per elaborare un racconto di esclusione e pregiudizio, dove la paura del mostro rinsalda la coesione sociale intorno al modello del benessere occidentale.

Il vampiro non viene mai nominato, ma Philemon lo diventa come figura di soglia, perché capace di mettere in discussione con la sua figura fragile e solitaria l’intero assetto comunitario. Invece di distruggere corpi e di assorbirne forza vitale, salvo in un’occasione dove in realtà risorge e rigenera un’anziana signora, occupa lo spazio eccedente dello straniero, soggetto da espellere come non-morto, la cui forza perturbante è capace di rivelare i principi di negazione su cui si basa il sistema sociale.

Senza cedere alla tentazione di recuperare le suggestioni della recente pandemia per attivare una possibile riflessione sulla paura del contagio, Rouzet sceglie segni più universali, raccontando comunque il pericoloso isolamento che caratterizza l’essenza della famiglia contemporanea.

La disumanità di Philemon è quindi l’unica spinta che possa consentire a Camila di tornare umana, individuando nel corpo e nel gesto ripudiato, l’inquietante morsa di una politica della rimozione, alla base del suo stesso stile di vita. La ragazza interpretata da Céleste Brunnquell, abita quel luogo di transito in cui l’esperienza di una mascolinità riconosciuta come centrale nella sfera comunitaria, viene improvvisamente sovvertita dall’esperienza emozionale e sensoriale del corpo.

Il sangue della ferita sulla mano, improvvisamente e pubblicamente leccato da Philemon, spalanca l’abisso dell’abiezione, provocando il crollo di tutti i confini e i parametri legati alla convivenza sociale. La malattia, il pallore, la timidezza e le bizzarrie del vampiro, consentono a Camile di sperimentare lo sprofondamento del senso, attraverso una potente destabilizzazione dei confini, dove le regole dell’attrazione vengono erose e la natura instabile del desiderio si rivela.

Ma Camile non rischia la morte, se non come transito da una condizione all’altra. Philemon spalanca un altro spazio possibile, quello della differenza. Ed è allora una rinascita e un rovesciamento dei presupposti che determinano la vita e la morte sociale. Fino a quando il valore culturale dominante non schiaccerà con brutale violenza la costante sfida dell’abiezione all’ordine costituito.

Céline Rouzet costruisce un percorso tragico e anti-elegiaco della formazione sociale e identitaria, restituendoci una prospettiva conficcata nella feroce immanenza di una comunità senza Pietas.
Lo fa grazie ad un cinema che aderisce alla verità e all’intensità dei corpi, nel loro periodo di trasformazione più incendiario, essiccando la fenomenologia del vampiro e deprivandola completamente di quelle caratteristiche ossianiche, intatte anche in certe riletture postmoderne.

Philemon si trascina in una cittadina perennemente investita dalla luce accecante del sole, mentre questo scolpisce i volumi dei complessi residenziali. Il suo deambulare sfrutta le zone d’ombra, consentendogli di procedere non visto in uno spazio sovraesposto, come un ladro, un migrante, un’eccedenza extra rispetto al vivere comunitario.

Immagina la levata del sole e mistifica i suoi ricordi bretoni per costruirsi la linea di una memoria impossibile, costantemente annullata dall’orizzonte negativo del viaggio.

La precarietà di un sentimento generato dalla sconnessione con l’idea di realtà, per come viene definita dalla consensualità dominante, serve alla regista francese per ricordarci che i vampiri sono tra noi.

En Attendant La Nuit di Céline Rouzet (Francia – Belgio – 2023, 104 min)
Interpreti: Mathias Legoût-Hammond, Elodie Bouchez, Jean-Charles Clichet, Céleste Brunnquell, Laly Mercier
Sceneggiatura: Céline Rouzet, William Martin
Fotografia: Maxence Lemonnier
Montaggio: Léa Masson

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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