Michael Fetter Nathansky, apolide tedesco, arriva al primo lungometraggio dopo una serie di corti che hanno dato corpo al suo percorso di studi alla Film University Babelsberg Konrad Wolf.
Cresciuto tra la Spagna e la Germania, ha affinato un punto di vista che combina l’eredità della Berliner Schule con aperture maggiormente visionarie. Every You Every Me assorbe i toni e le qualità cromatiche della realtà industriale, cercando quel punto intermedio tra annichilimento e realizzazione all’interno della catena lavorativa, con un realismo algido e geometrico affidato alla fotografia plumbea di Jan Mayntz.
È nel ventre grigio della fabbrica e all’ombra delle ciminiere che si sviluppa la storia d’amore tra Nadine e Paul. Lo scontro e la contrapposizione è ciò che li unisce per la prima volta, una dimensione fisica legata ai disturbi dello spettro bipolare dell’uomo e agli attacchi di panico che minano tanto la realtà sociale che lo circonda, quanto la stabilità dei suoi rapporti lavorativi.
Nadine, l’unica capace di calmarlo, è amante, compagna, madre e tutrice. Il ruolo come caporeparto le consente di assorbire tutte le tensioni tra l’interno e l’esterno, per cercare una conciliazione tra il nucleo famigliare e il mondo, interamente assorbito dal recinto lavorativo.
Quando la protezione sembra non esser più un elemento necessario ed emergenziale, l’amore della donna si spegne e Paul, per lei, diventa un estraneo.
Nathansky, che evita in modo programmatico la linearità del racconto, per favorire l’interazione allusiva e predittiva tra i piani temporali, sonda gli stati di un sentimento attraverso una scelta di campo che pende tutta dalla prospettiva di Nadine. È la sua personale soggettiva a rivelarci cosa può essere Paul, dallo stato bestiale a quello infantile, dalla tenerezza di un adolescente alla forza di un uomo.
Lo spazio e la distanza visuale non cambiano, immersi come sono in una definizione ben precisa e codificata dai parametri del realismo sociale, ma vengono improvvisamente occupati dalla presenza aliena della visione interiore.
Il regista tedesco sceglie di affidarsi alle forme del fantasticare e suggerisce lo sguardo molteplice di Nadine su Paul, attraverso altrettante apparizioni.
Un toro da sedare nella sala macchine, un bimbo da rassicurare prima del colloquio con il Principale, un adolescente con il quale poter riattivare la dimensione intima del dialogo.
Quando queste espressioni metaforiche convergono con l’uomo che riequilibra tutti gli stati dell’essere, le eccedenze che hanno innescato e determinato l’amore di Nadine per Paul, scompaiono insieme al sentimento.
Correre il rischio di affidarsi ad un regime simbolico così esplicito, significa depotenziare le possibilità di rintracciare la bestia o il bambino negli occhi di Carlo Ljubek, l’attore che interpreta Paul, con la libertà a cui il miglior cinema della realtà dovrebbe tendere. Nathansky in questo senso si muove tra due polarità apparentemente distinte, senza violare la cornice di riferimento, ma immergendo le manifestazioni nell’evidenza empirica.
La ripetizione dello schema ci suggerisce forse una scorciatoia facile, ma non toglie intensità alla mutazione intima interpretata da Aenne Schwarz, perno principale attorno al quale ruota tutto il film.
L’odore del marito che cambia, la necessità di dargli uno schiaffo per riattivare la violenza passionale degli inizi, il tempo del lavoro e quello della vita in continua e dolorosa collisione, sono tutte le eccedenze che il regista tedesco cerca di evidenziare all’interno di una dimensione spaziotemporale che esalta e allo stesso tempo asciuga, la presenza dello stile.
Un equilibrio difficile per un’opera ancora acerba, ma che ha il merito di rivelare due percezioni opposte del sentimento amoroso con cruda onestà.
Every you Every Me di Michael Fetter Nathansky (Alle die Du bist – Germania, Spagna – 2024 – 108 min)
Interpreti: Aenne Schwarz, Carlo Ljubek, Youness Aabbaz, Sara Fazilat, Naila Schuberth
Sceneggiatura: Michael Fetter Nathansky
Fotografia: Jan Mayntz
Montaggio: Andrea Mertens
Musica: Ben Winkler, Gregor Keienburg