Nel nuovo film di Frederick Wiseman Il luogo è il personaggio, il soggetto che crea relazioni, che mette in connessione un’umanità varia di cui il regista si fa testimone ingordo di coralità, affascinato dal flusso più che dal singolo, sia esso un uomo o un dettaglio, sempre recalcitrante a selezionare, nell’aspirazione a una costruzione enciclopedica, all’edificazione antologica che restituisca al pubblico una visione quanto più stratificata, globale e comprensiva possibile.
In un passaggio di questo documentario in concorso alla kermesse lagunare, un’architetta olandese chiamata a intervenire sul futuro delle biblioteche come edifici «in senso letterale e metaforico», spiega che la biblioteca non è solo un deposito di libri e che, anzi, i libri non c’entrano. Al centro della biblioteca c’è la persona e tutto ruota intorno alle persone. È questo solo uno dei molteplici brani di un film che documenta tutte le attività che avvengono nel microcosmo della biblioteca pubblica della Grande Mela – i corsi di danza per anziani; le lezioni di braille per ciechi; l’assistenza ai disabili; gli incontri con intellettuali, poeti, musicisti; i consigli d’amministrazione; le cerimonie speciali; i corsi pomeridiani per bambini; le conferenze sulla storia della politica e i temi sempre cogenti dell’attualità – senza che vi sia mai un indugio sul libro né venga mai allestita una mitologia dello stesso.
A Wiseman interessa la gente e la vita, la società come insieme di interazioni e la società che documenta e a cui offre un vero e proprio monumento (in senso etimologico) cinematografico è una società inclusiva, solidale, curiosa, talvolta ammaccata nella sua umanità ferita – dalla disabilità, dalla subalternità economica, dalla deprivazione affettiva – ma sempre desiderosa di imparare ed aprirsi al mondo, alla conoscenza e alla differenza.
È facile e conseguente, dunque, leggere quest’opera wisemaniana in senso resistenziale in un tempo in cui l’elezione di Trump a presidente ha scoperchiato un dato di realtà: che l’America non è solo una comunità ‘educata’ di virtuoso scambio interetnico, ma anche coacervo di frustrazione, paura, diseducazione.
È un film quasi di ‘compensazione’ e certamente non di analisi, che consegna al pubblico il senso ultimo, anche un po’ commovente, di un’istituzione che resiste nel suo essere perno della dialettica sociale, dell’assistenza e del reciproco aiuto a migliorare, progredire, emanciparsi da una condizione sfavorevole.
Eppure viene da chiedersi, oltre al mero, evidente e senz’altro straordinario valore documentale, cosa in questo film tanto sobrio quanto cumulativo vi sia di urgente in un’epoca attraversata da tensioni sotterranee e abissi di coscienza individuale e civile che il cinema statunitense, come i media, continua a disattendere.
Decontestualizzato in concorso, Ex Libris è un’opera sì monumentale e preziosa, ma affatto impellente.