Nel “duello” tra Albert Einstein e Niels Bohr sul principio di indeterminazione, durante le giornate del congresso di Solvay nell’ottobre del 1927, il fisico di origini Danesi risponderà alle sollecitazioni del padre della teoria della relatività invitandolo a piantarla di “dire a Dio che cosa fare con i suoi dadi“.
L’altissimo di Ridley Scott è un bambino accidioso e arrogante, compare per la prima volta a fianco del roveto ardente mentre si trastulla con alcuni dadi di pietra, segni che lascerà più di una volta, anche solo per indicare il suo passaggio ad un riluttante Mosè, come Gaff in Blade Runner, il misterioso “angelo custode” di Deckard che dissemina origami.
Al di là dell’analogia giocosa e del noto ateismo di Scott a carte scoperte, aspetto evidente che non a caso ha fatto arrabbiare tutta la critica religiosa, comunque molto più attenta ai Logía delle immagini rispetto a qualsiasi giornalista medio, fino alle censure in Egitto e in Marocco, è interessante evidenziare come la rilettura della Storia Sacra da parte del regista inglese si basi su quell’iperrealismo spinto che ha attraversato tutto il suo cinema fino ad asciugare la tensione metafisica dell’immagine intesa come sguardo lanciato oltre l’oggetto contemplato, per privilegiare al contrario la relazione tra il corpo e il paesaggio, il primo piano e la skyline, la frontalità del duello e la costruzione di un universo concepito con la logica della pianificazione militare, fino a ribadire anche in tempi recenti, durante un’intervista rilasciata per la promozione di The Counselor quanto la costruzione di un universo assuma il ruolo del personaggio definitivo, come “il paesaggio in un film western, il più importante di tutti, perché in fondo i migliori Western sono quelli dove un uomo è contro il suo stesso paesaggio”
E se The Counselor era una formidabile esplosione della superficie gore McCarthyana nel landscape di uno spot “automotive” primi novanta, come quello diretto da Scott per la Nissan 300ZX, la frontalità dello scontro viene ribadita esplicitamente da Mosè (Christian Bale) quando nel dialogo con il dissoluto Hagep (Ben Mendelsohn) corregge la definizione di Israele riferendola a “colui che lotta con Dio” come descritta nella teomachia di Giacobbe presente nella Genesi e in questo caso ricondotta alla dimensione più cruda del combattimento.
Persino le intrusioni di un razionalista che spiega a Ramses le cause naturali che hanno scatenato le piaghe d’Egitto, realizzate secondo Scott con il massimo del realismo possibile e quindi con tutto l’illusionismo ipertrofico CGI, vengono interrotte da un’impiccagione ex abrupto per sgombrare dall’orizzonte del Sovrano qualsiasi idea lontana dal conflitto con Dio; una giostra il cui scenario è un paesaggio come quello di Blade Runner o la pista di un’arena infinita addossata sul ciglio di un monte, quasi ad amplificare attraverso un movimento senza fine il tracciato del Circo Massimo mentre all’orizzonte il mare attende lo scontro finale tra i due fratelli con un muro d’acqua che si eleva contro.
In questo senso, il materiale di cui si serve Scott; popolare, leggendario, cinefilo, autocelebrativo, religioso, politico ha la stessa valenza mostruosa e ludica di un albo di Métal Hurlant o della “fantascienza” di Erich von Däniken a cui credono i cospirazionisti più rincoglioniti (ovvero, tutti) e che come in Prometheus diventa oggetto di una stratificazione visionaria potentissima e allo stesso tempo una belligerante lotta per la sopravvivenza con-tro il set, dove i corpi, imprigionati nella grande interfaccia digitale senza dispositivi, si confrontano senza requie con il “realismo sintetico” degli sfondi CGI, tra simulazione e improvvisazione empirica.