domenica, Dicembre 22, 2024

Falcon Lake di Charlotte Le Bon: recensione

Falcon Lake è immagine dell'assenza, come tensione modulata da un desiderio mai formatosi pienamente. La morte, oppure il luogo di una vacanza straordinaria, hanno lo stesso sapore, perché indicano la vertigine del ricongiungimento con le tracce che hanno codificato la relazione tra esperienza e ricordo. Sul bellissimo esordio di Charlotte Le Bon, nelle sale italiane dal 29 giugno grazie a Movies Inspired

L’ambientazione di Une Sœur, la graphic novel di Bastien Vivès, cambia completamente nell’adattamento che ne ha fatto Charlotte Le Bon insieme a François Choquet per Falcon Lake.
Nel primo lungometraggio come regista dell’attrice canadese, a far da sfondo non è più la costa francese, ma la flora dei Monti Laurenziani a sud del Québec. Una scelta non semplicemente estetica, ma che infonde al film l’intensità di un rito di passaggio dove gli elementi, la foresta e la presenza magnetica del lago, spingono il racconto in quella dimensione tra formale e informale che solo il transito dell’adolescenza può ancora individuare.

La descrizione dell’età acerba come interrogazione incessante delle ferite dell’io, esce dal solco di quell’esistenzialismo connaturato ai percorsi formativi strettamente connessi alla contemporaneità, per confrontarsi con uno spazio primordiale definito a partire dai sensi, ma allo stesso tempo inscritto nei segni dell’immaginario. Non il gioco fantastico come fuga, quanto il continuo entrare ed uscire dai territori della memoria, per scoprire, atterriti, un attraversamento del tempo immediatamente escluso dall’esperienza empirica.

A differenza dell’esplicita torsione temporale individuata da Céline Sciamma in Petite Maman, la realtà in Falcon Lake è uno specchio potenziale, che incorpora tutti gli interrogativi nella sincronicità delle rivelazioni quotidiane.

Chloé, che in quei luoghi sembra esserci sempre vissuta, mette in scena la propria morte come un gioco utile a sperimentare il limite sensibile del corpo. La presenza di un fantasma che abita le profondità del lago è costante, non solo per la teatralizzazione che la ragazza allestisce, ma per il modo in cui marca un tempo fuori asse costituito da apparizioni sospese tra ciò che non è più e quello che ancora non può essere.

Senza riferirsi ad un’impalcatura metafisica, la spettralità viene disancorata dallo spazio metaforico e speculativo contemporaneo per esser ricondotta dagli schermi alle stazioni dell’esperienza sensoriale. I primi, nelle rarissime incursioni in questi luoghi separati dal mondo, rimangono ai margini come fonti di fraintendimento o di annoiata distrazione.

Quando Bastien approda con i genitori e il fratellino nel capanno già frequentato dalla famiglia insieme a quella di Chloé, l’intreccio tra rimettere nel cuore e tempo presente subisce una stratificazione multisoggettiva.

L’inizio e la fine dell’estate allora comunicano entro quel sentiero palindromo che ci consente di scorgere la morte come svanire che accade. I figli, lasciati liberi di sperimentare i propri limiti nella vastità dell’ambiente naturale, sono il fantasma delle estati passate, con gli adulti quasi sempre sullo sfondo, caratterizzati dai sussurri oltre la parete, le azioni ai margini dell’inquadratura, una presenza opaca che non partecipa alla creazione del mondo circostante.

Questo emerge dall’oscurità del bosco come un bagliore di vita contratta nel confine irreale delle piccole feste tra amici. I sedici anni di Chloé impattano sui quattordici di Bastien con l’irruenza di una conoscenza carnale che rimane sul confine di due identità ancora in nuce. La stessa labilità che il 16mm di Kristof Brandl individua nei contorni accennati e mangiati dall’oscurità o nel lento svanire della luce durante gli ultimi istanti del crepuscolo.

Se c’è allora una dimensione gotica nel film di Charlotte Le Bon, questa viene plasmata sull’immagine dell’assenza, come tensione modulata da un desiderio mai formatosi pienamente.
Bastien, spesso nelle condizioni fisiche di giocare con l’iconografia dello spettro, assume su di se molte possibilità, tra cui quella di produrre la temporalità di Falcon Lake come segmento mnestico.
Improvvisamente congelato in un gesto d’amore inespresso, tratteggia una geografia possibile tra l’interno del lago come ventre minaccioso e la contemplazione delle acque dall’esterno, come immagine irraggiungibile.

Sono numerose le sequenze in cui Le Bon incorpora l’osservatore nell’inquadratura, per suggerirci che quella stessa immagine possa essere un condensato paradossale tra il futuro e il passato, la memoria e la morte.

Cosa importa allora definire precisamente quello che accade a Bastien, quando sfida la paura dell’acqua e spinge il suo corpo verso un orizzonte imperscrutabile.
A Le bon interessa maggiormente mettere in scena un processo di trasformazione che può includere la comprensione di un gesto sospeso, rimasto soffocato in un corpo ancora acerbo, ma anche la malinconia di un’estate irrecuperabile, eppure marcata dall’apparente immutabilità di quei luoghi.

La morte, oppure il luogo di una vacanza straordinaria appena abbandonato e osservato dal lunotto di un’auto mentre svanisce, hanno lo stesso sapore. Indicano la vertigine del ricongiungimento con le tracce disseminate, prima e dopo l’esistenza stessa di quei ricordi immaginati o vissuti, che codificano la relazione tra presenza e assenza.

Quella stagione dei sentimenti e della spensieratezza che coincide con le estati dei nostri ricordi, nasconde in seno il presagio della fine. Le Bon ne coglie tutte le antinomie, in ogni inquadratura del suo film, sospeso nell’impermanenza della realtà, il cui limite inghiotte continuamente i giovani protagonisti nel deflusso continuo da un’esperienza all’altra.

Quel raggio di realtà descritto da Rilke come varco che spalanca la scena dopo la scomparsa, delinea nel film di Le Bon uno spazio attraversabile in entrambe le direzioni. Sono le due immagini speculari di osservatori in attesa, lanciate verso l’orizzonte oltre il lago, a suggerirci che il racconto possa essere riavvolto e ridefinito dall’improvvisa capacità di vedersi.

Falcon Lake condivide con un altro esordio di piccolo formato, quello di Salomé Villeneuve, le risonanze interiori sollecitate dall’insondabilità della natura. Ma a differenza della collega, Charlotte dissolve le caratteristiche di un cinema sensoriale con il progressivo disvelamento di un’altra realtà oltre lo specchio.

Falcon Lake di Charlotte Le Bon (Canada 2022, 102 min)
Interpreti: Jeff Roop, Monia Chokri, Karine Gonthier-Hyndman, Sara Montpetit, Joseph Engel, Pierre-Luc Lafontaine, Thomas Laperriere
Sceneggiatura: François Choquet, Charlotte Le Bon
Fotografia: Kristof Brandl
Musica: Klô Pelgag

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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