Le storie di vendetta incorporano un rischio insidioso, quello di attivare una soggettiva senza scampo, a prescindere dal contesto politico, sociale e identitario che fa da sfondo. Non sono esenti da questo sguardo autoritario anche quelle opere che si appropriano del punto di vista semioculturale dominante, con l’illusione di rovesciarne i parametri semplicemente sostituendo i soggetti e riproponendo le consuete dinamiche binarie.
Le eccezioni più vitali rendono accidentata la rappresaglia, introducendo una serie di dubbi e soprattutto spezzando la simmetria vittima/carnefice in una vertiginosa messa in abisso di un ruolo nell’altro. E non c’è bisogno di rintracciarne i semi nel neo-noir; letteratura e cinema tra gli anni 40 e i 60 sono territori ricchi e complessi che già problematizzano l’opacità oppure la trasparenza dei dispositivi.
Gli esordienti Freeman e Choon Ping tentano proprio questa strada a partire dal travestimento come luogo della metamorfosi, dove ogni soggetto riconosce oppure nega il proprio sé, attraverso una specifica prospettiva identitaria, camuffata o al contrario, rivelata.
Jules, interpretato da un notevole Nathan Stewart-Jarrett, vive il cross-dressing come atto performativo ben preciso all’interno di un club dell’Est End Londinese. Il teatro diventa una porta d’accesso verso la quotidianità e le luci notturne del quartiere, attraverso un ribaltamento cosciente tra identità assegnata e preferenze, tanto da rileggere un noto assunto bowiano per cambiarne senso e direzione: “[Aphrodite] è la mia identità reale e io sono l’azione performativa“.
Non è così per Preston, omofobo e al centro di una gang di amici dove il machismo è il codice condiviso, e i cui segni, dai tatuaggi all’abbigliamento, costituiscono un’altra idea di travestimento, quella intesa come medium performativo esibito, per dissimulare la propria identità di genere.
I due si incontrano in un minimarket 24h poco dopo la fine dello show notturno di Aphrodite.
La delegittimazione razzista del gruppo e la resistenza sagace alle provocazioni da parte della drag afro-londinese, decisa a stabilire una continuità tra il palco e la strada, sfociano in un pestaggio violento e quasi letale ai danni di Aphrodite.
L’unica spinta vitale che consentirà a Jules di uscire dal conseguente isolamento dal mondo e anche dalla sua comunità di riferimento, sarà l’incontro fortuito con Preston all’interno di una sauna per soli uomini. Senza esser riconosciuto, perché privo dei segni e dei codici esteriori che hanno generato il violento rifiuto, Jules può scrutare le attitudini nascoste del maschio alfa e farsi lentamente avvicinare come preda. Lo scopo principale è allestire un teatro relazionale, per architettare una vendetta in piena regola, esercitata attraverso il possibile utilizzo di video privati come forma di sextorsion.
Da questo momento in poi, la coppia di registi documenta lo svolgersi di una relazione clandestina secondo prospettive invertite, quella del gruppo di Preston, aggregato intorno ai codici tribali di appartenenza maschile, tra droghe e videogames e il nucleo che caratterizza il mondo di Jules, fluido e determinato da precise regole culturali.
In entrambi i casi sono due zone a rischio dove la rottura dei codici condivisi può generare rischiose reazioni a catena.
Sul crinale di una tensione violenta sempre sul limite dell’esplosione, Femme diventa un film fatto di continui sconfinamenti e attraversamenti, a partire dalle logiche che determinano il gioco di ruolo tra vittima e carnefice.
Se l’architettura di una ritorsione efficace può essere messa in atto da Jules solo interpretando la parte credibile di una preda passiva e quindi abitando le forme della sessualità che passano anche dalla violenza e dal dominio, il possesso effettivo esercitato da Preston muta lentamente fino a dismettere i panni della componente attiva.
In questo continuo ribaltamento del punto di vista, Jules che nella prima parte del film sembra destinato e reinterpretare all’infinito il ruolo della vittima, sposta le regole dell’attrazione fino a trovarsi nello spazio in cui si possono codificare nuove regole di una violenza condivisa.
Ed è proprio la violenza, tramite che sembra evidentemente ineludibile nelle dinamiche che caratterizzano il desiderio, a manifestarsi in tutte le declinazioni possibili, in un’estremizzazione del vivere sociale che mette al centro il possesso e la consunzione dei corpi.
Femme a un certo punto è infestato di schermi. Sono quelli dei video porno che Jules consuma, tra piacere personale e studio quasi antropologico delle prassi di video scamming a sfondo sessuale.
Ma soprattutto le registrazioni video che effettua durante gli amplessi brutali con Preston, sempre più filtrati dal lessico hardcore e dal riflesso scopico come unica possibilità di definire il proprio spazio, all’interno di una relazione basata sul travestimento delle intenzioni e l’auto-rappresentazione.
L’esperienza dell’alterità, negata dal continuo specchiarsi in un’arena consumabile, riemerge proprio nel momento in cui questa comincia a creare sovrapposizioni e sostituzioni impensabili.
Il progressivo slittamento dei soggetti nel carattere oggettuale della visione, determina uno shock percettivo, legato al vedersi improvvisamente come oggetto all’interno della cornice digitale.
La fragilità, quando si manifesta, non può che esplodere di nuovo in strada, in un estremo tentativo di interpretare le innumerevoli ferite dello spazio urbano e sociale, con un atto estremo di violenza che rivela le sue origini nella paura di abbracciare la tenerezza.
“Eri così carino“, dice Preston tra le lacrime mentre spacca nuovamente la faccia a Jules.
In questo anti-noir che del genere conserva l’ossessione e il disorientamento interiore, Sam H. Freeman e Ng Choon Ping descrivono una Londra Queer notturna, Queer proprio a partire dalle eccedenze di tutte quelle microsocietà che elaborano un codice di sopravvivenza tribale.
La fotografia di James Rhodes, che viene dall’ambito della videomusica come molti artisti del nuovo cinema britannico, è immersa nella notte, illuminata solo dall’artificio dei neon e delle sorgenti digitali, quasi a suggerire una realtà che si muove tra la dimensione aumentata delle comunità modellate sulle piattaforme virtuali e lo spazio terrorizzante della strada: difficile, crudele, apparentemente senza scampo, ma ancora possibile nella stratificazione di forze corporee opposte che l’attraversano.
Questo spazio apolide è ancora destinato alla danza e allo scontro dei corpi, gli unici che ancora valga la pena raccontare.
Femme di Sam H. Freeman e Ng Choon Ping (GB 2023, 99 min)
Interpreti: George MacKay, Nathan Stewart-Jarrett
Sceneggiatura: Sam H. Freeman, Ng Choon Ping
Fotografia: James Rhodes
Montaggio: Selina Macarthur
Musica: Adam Janota Bzowski