lunedì, Dicembre 23, 2024

Finding Fela di Alex Gibney – Festival dei Popoli 55, evento speciale: la recensione

In una recente intervista rilasciata per il British Film Institute, Alex Gibney ha specificato quanto sia importante per il suo cinema il tema del potere e del suo abuso esaminato attraverso la psicologia di uomini dalla grande influenza carismatica. Quando la consapevolezza del proprio ruolo eccede i confini della realtà, si innesca un meccanismo distruttivo da cui non è più possibile salvarsi. Consumati dal loro stesso mito, i protagonisti dei documentari di Gibney sono figure gigantesche nel bene e nel male, ma vengono improvvisamente divorate dal lato più oscuro della loro personalità, perdendo qualsiasi prospettiva di vita.
Hunter S. Thompson, padre Lawrence Murphy e Fela Kuti, per quanto i loro percorsi siano completamente differenti, sono accomunati da un delirio di onnipotenza che da un certo momento in poi, rovescia il senso della loro missione.

Finding Fela il primo dei progetti a vedere la luce, tra i numerosi a cui Gibney sta attualmente lavorando, ha la stessa ambiguità di Mea Maxima Culpa perché la maggiore empatia che lo avvicina alla vita di Fela Kuti, non assume il compito di censurare gli aspetti più controversi del musicista nigeriano, evitando la strada agiografica anche grazie ad uno sguardo di secondo grado, quello di Bill T Jones, produttore del musical “Fela!” passato dal circuito off-brodway al distretto teatrale principale nell’arco di un anno. Gibney filma il backstage dello spettacolo di Jones nel momento del massimo successo e interseca la visione del noto coreografo con la drammatizzazione delle fasi più salienti legate alla biografia di Fela Kuti. Una messa in scena che gli serve per decostruire il mito attraverso un processo di creazione e re-interpretazione delle sue potenzialità performative, al quale affianca un lavoro documentale di ricerca che trova il suo apice nelle immagini d’archivio filmate durante le esibizioni live del musicista nigeriano.

La visione di Bill T. Jones, quella probabilmente più critica, è una delle chiavi per introdurre le caratteristiche più difficili della personalità di Kuti; l’aspetto che sembra colpire Jones e la sua compagnia è quello della poligamia, un’attitudine coltivata in modo compulsivo anche dopo aver contratto l’HIV, percorso verso la morte che Kuti stesso non accetterà, continuando a vivere in modo scellerato.

Ne viene fuori un quadro plurale e per certi versi inafferrabile, come nello stile di Gibney, grazie all’imponente complessità del materiale: ritagli di giornale, immagini d’archivio legate alla storia della nigeria, interviste con i musicisti vicini a Kuti e con artisti contemporanei della musica popolare, appassionati del suo sound (da Questlove dei The Roots a Paul McCartney)

Ma il percorso più vitale è quello che ricostruisce cronologicamente la sua vita, a partire dalla formazione in una famiglia colta della middle class, per poi raccontare l’apprendimento della musica liturgica, aspetto che ritorna attraverso una serie di testimonianze convergenti nell’identificare la “levità” della musica di Kuti come una derivazione diretta di questo apprendistato spirituale

Dopo aver mollato la carriera medica a cui preferisce il Jazz, torna da Londra in Nigeria e continua a suonare con una prima band. Abbandonerà presto quelle sonorità, o meglio, le contaminerà con la musica del suo paese, facendosi influenzare massivamente dalla soul-music di uno dei suoi numi tutelari, James Brown. In poco tempo nasce un suono rivoluzionario, non semplicemente in termini musicali, ma per l’urgenza di esprimere lo spirito della terra; è l’inizio dell’Afrobeat.

La politica non è direttamente connessa alle prime intenzioni di Fela, lo ricorda la testimonianza di Sandra Izsadore, allora Sandra Smith e attivista delle Black Panther, la prima che lo introduce agli scritti di Malcolm X, Eldridge Cleaver e altri sostenitori dell’Afrocentrismo.

Il film di Gibney si avventura nella ricostruzione di una coscienza in movimento che comincia a comprendere la corruzione in cui versa la Nigeria di quegli anni, schiacciata da un boom economico che lascia indietro le radici agricole del paese per creare un sistema di forte disuguaglianza eretto sulla ricchezza delle risorse petrolifere. La casa situata a Lagos diventa una comune dove la fama simbolica e profetica di Kuti cresce di pari passo alle sue attitudini sessuali. 27 mogli, il rapporto difficile con i figli e la prima moglie che testimoniano la vita impossibile insieme ad un uomo, in buona parte concentrato a soddisfare le proprie esigenze.

La visione di Bill T. Jones, ormai abbandonata durante il corso del film per dare spazio alla ricostruzione documentale e alle testimonianze di chi ha condiviso con Kuti la vita e il palco, dialoga a distanza con il lavoro di Gibney come se si trattasse di due documentari uno dentro l’altro, il primo legato alla rilettura degli aspetti performativi dell’arte di Kuti, il secondo orientato a creare una tensione tra l’attività politica, quella artistica e la vita privata.

Le testimonianze dirette di Kuti sono ridotte al minimo nel film di Gibney e quasi sempre legate all’attività dei concerti, come a voler identificare il corpo, la musica e il fremito del grande musicista nigeriano con l’unica voce possibile e utilizzabile. La mancanza di interviste di repertorio più ricche non ci sembra una limitazione, ma una scelta che contrappone quello che rimane di Kuti con un’idea prismatica e controversa restituita dalle testimonianze plurali.

Nel mezzo, anche attraverso le potentissime immagini dei funerali, c’è un’aura che si avvicina a tutti gli aspetti del culto, tra delirio di onnipotenza e la grandezza di un mistero.

Redazione IE Cinema
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