Abbiamo incontrato per la prima volta Flaneur Magazine nel tentativo di mettere insieme alcuni concetti attraverso gli strumenti connettivi, per imbatterci in una video intervista pubblicata dal Goethe Institut di Montreal, dove Ricarda Messner racconta il progetto. Fondata dalla stessa Messner a Berlino, Flaneur è una pubblicazione cartacea che si concentra sulla complessità di una strada. Giunta al quinto numero è uscita per la prima volta nell’estate del 2013 dedicando il suo lavoro a Kantstrasse, Berlino, per proseguire con Georg-Schwarz-Strasse, Leipzig; Rue Bernard, Montreal; Corso Vittorio Emanuele II, Roma ed infine Fokionos Negri, Atene, numero uscito recentemente nell’autunno del 2015.
Senza il rischio di definirne qualità statiche, Flaneur Magazine è un’esperienza di lettura che coinvolge altri sensi oltre allo sguardo e alla prassi combinatoria dell’intelletto, superando di fatto la classica linea redazionale di una rivista cartacea confinata nel porticciolo sicuro della rubrica, grazie ad un concetto che dialoga non solo con alcuni contenuti disponibili successivamente online, come per esempio le registrazioni sonore fatte su audiocassetta lungo Rue Bernard, ma anche per le qualità tattili e materiali della stessa rivista costituita da una diversa combinazione di layout, lettering, impaginazione, sconfinamenti tra visuale e letterario e anche qualità effettiva della carta.
È sufficiente sfogliarla, senza immergersi necessariamente in uno dei numerosi tasselli multidisciplinari, per affrontare un primo livello d’esperienza che di pagina in pagina cambia formati, font, priorità del visuale sul letterario e viceversa, con la carta che diventa ruvida, lucida, patinata, facendo immediatamente dialogare tatto e vista in termini squisitamente sensoriali.
Le qualità nomadiche del progetto sono quindi riscontrabili dalla superficie fino al modus operandi della redazione, i cui elementi fissi oltre alla Messner sono i direttori editoriali Fabian Saul e Grashina Gabelmann, a cui si aggiungono di volta in volta autori, artisti e performer che offrono il loro contributo dal contesto locale esplorato. Lo stesso lavoro di design, impaginazione e grafica, curato da Michelle Phillips e Johannes Conrad dello Studio Yukiko, cambia a contatto con la realtà di riferimento e viene modellato a partire dall’odore, il colore e il sapore del luogo.
Al di là della specificità di ogni contributo, a fuoco ma allo stesso tempo permeabile, Flaneur Magazine ci è sembrato un progetto tra i più stimolanti degli ultimi anni proprio per il modo in cui si situa attivamente in quella relazione tra liquido e solido che ha attraversato gli ultimi turbolenti cambiamenti legati alla trasformazione dell’editoria. Senza imbastire ridicole battaglie di appartenenza, la rivista rappresenta una delle combinazioni più riuscite tra documentazione e soggettività, attraverso la rilevazione di vere e proprie tracce di resistenza che si situano sincronicamente tra carta e digitale e dove il passato coesiste con il futuro, mentre qualsiasi cicatrice, anche legata alle mutazioni del mercato, diventa occasione di scoperta più che ferita da leccarsi.
Superando il dibattito tradizione vs. rete, Flaneur Magazine ci racconta quanto quelle differenze siano semplicemente attitudinali e con uno sguardo del tutto personale all’Italia, quanto la realtà delle nostre riviste di settore, quasi sempre in crisi e con la mano tesa, sia ferma ad un modello ottocentesco come quello che procede dalla diffusione capillare dei “fogli volanti” per arrivare agli anni venti del novecento attraverso la definizione dei “pulp magazine” statunitensi. Qui non si è andati molto oltre, e per chi volesse approfondire, consigliamo il panel registrato lo scorso 16 aprile a Perugia e pubblicato su youtube con il titolo “Come e perché la carta stampata non è morta“, in occasione dell’International Journalism Festival dove oltre a Ricarda Messner, hanno partecipato Cesare Alemanni co-fondatore di Berlin Quarterly, Federico Scarica, direttore di Studio, Ibrahim Nehme direttore di Outpost.
Fabian Saul e Grashina Gabelmann, in questa stimolante conversazione, ci hanno raccontato la fisiologia mutante di un progetto che si ricollega idealmente alle intuizioni di Walter Benjamin, rilanciandole secondo nuove prospettive di sviluppo. La molteplicità di sezioni e spicchi che il filosofo tedesco descriveva come stato della coscienza nei “Passages” di Parigi, dove “le opere architettoniche, le mode, persino il tempo atmosferico, sono, all’interno della collettività, ciò che i processi organici, i sintomi della malattia e della salute, sono all’interno di un individuo” vengono percorsi nuovamente dagli ideatori di Flaneur calandosi in un luogo senza ricerche pregresse ad orientarne la forma, mentre la rivista prende vita insieme a quella stratificata di una strada, tra ricezione dei segni, trasformazione e stupore.
Come è nata l’idea di Flaneur Magazine e qual’è il percorso che vi ha portato alla pubblicazione della rivista?
Grashina Gabelmann: L’editore di Flaneur, Ricarda Messner, ha avuto l’idea di fondare una rivista che affrontasse una strada per ogni numero circa tre anni e mezzo fa. Sapeva bene di volersi concentrare sugli aspetti di un microcosmo che di per se rappresenta grandi opportunità narrative, usando formati e mezzi differenti. Io e Fabian Saul ci siamo uniti alla squadra e insieme abbiamo ideato il concept della rivista: letteraria, multidisciplinare, non-lineare e che ci consenta di portare dentro e mettere insieme oggetti, persone, storie e luoghi che non siano necessariamente correlati, pur mantenendo un approccio totalmente soggettivo. Dopo aver concepito l’idea, ho incontrato Johannes e Michelle di Studio Yukiko e li abbiamo convinti a salire a bordo con il loro incredibile talento visuale.
La rivista mantiene comunque un contatto con contenuti di tipo “liquido” pubblicati online. Che tipo di interazione si stabilisce con il cartaceo?
Grashina Gabelmann: Sperimentiamo con la musica, il cinema, l’arte performativa. Per il numero dedicato a Roma abbiamo allestito una performance coinvolgendo alcuni artisti direttamente in strada. Abbiamo documentato l’evento integralmente e realizzato un cortometraggio che può essere visionato online, oltre ad aver usato i fotogrammi del film per il cartaceo. In questo senso ci sono in atto molte trasformazioni e sperimentazioni: “come può una performance mantenere il suo valore e funzionare su stampa? Come potresti approcciarti ad un documentario, quando lo scopo è quello di stampare un racconto e non un film?” Proprio per questi motivi l’interazione e la sperimentazione risiedono tra la rivista stampata e la nostra sezione chiamata Unprintables, pubblicata sul sito ufficiale di Flaneur Magazine.
Il layout della rivista cambia durante l’esperienza di lettura: forme differenti, formati differenti, anche la qualità della carta differisce di sezione in sezione. Che tipo di idea c’è dietro questa scelta, e come vengono decisi questi cambiamenti in termini materiali?
Grashina Gabelmann: Johannes e Michelle, i due grafici, vengono con noi nelle città dove decidiamo di sviluppare la rivista e ci rimangono per qualche giorno, mentre io e Grashina rimaniamo in loco per ben due mesi. Nel periodo della loro permanenza compiono una serie di ricerche sul campo: scattano foto, consultano quotidiani, catturano i colori, le atmosfere e visitano anche le tipografie locali. Questo insieme si riflette in ogni numero della rivista, anche per questo i cinque pubblicati fino a questo momento risultano così differenti tra di loro. Non avrebbe alcun senso realizzare numeri tutti uguali dal momento in cui ogni città vive e si presenta attraverso la sua unicità. Gli editori ci lasciano liberissimi di scegliere e la sola limitazione è un vago riferimento agli ingombri anche se c’è la possibilità di sconfinare grazie al fatto che grafici, editori e tutti noi siamo costantemente in contatto durante il processo di sviluppo. Un approccio cosi sperimentale è per noi segno di vitalità
A proposito di libertà, se doveste fornire alcune indicazioni di lettura per la rivista, quali sarebbero?
Grashina Gabelmann: Prendetevi il vostro tempo. La rivista non deve essere letta necessariamente in ordine di impaginazione. Forse potremmo anche consigliare di non leggerla tutta d’un fiato e di tenere gli occhi aperti. Personaggi, situazioni e oggetti possono apparire nuovamente nel corso dei numerosi contributi, perché ci sono moltissime connessioni e riferimenti incrociati lungo tutta la rivista, è un po’ come un puzzle dove non è importante se trovi o meno tutti i pezzi.
Secondo voi chi è oggi un flaneur? È semplicemente una persona che vaga o per usare un’espressione di Teresa De Lauretis, è colui che vagando incontra e interseca i segni della meraviglia (n.d.a. l’espressione è: signs of wo/ander) ?
Fabian Saul: Per quanto il termine Flaneur spesso inneschi alcune associazioni nostalgiche, siamo molto concentrati sulla tecnica del flaneuring, invece che sul personaggio del Flaneur. Credo che questa tecnica sia una strategia senza tempo. Quella modalità del vagare che conduce allo stupore e che potrebbe coinvolgere lo stesso processo è in effetti un pensiero che è molto vicino alla nostra idea. Sulla copertina del numero dedicato a Leipzig, Grashina che è direttore editoriale insieme a me, ha definito questo processo in un modo che credo sia in linea con la citazione di Teresa De Lauretis, andando però oltre: ” Se si visualizzasse una strada in modo completamente diverso, vale a dire non come un percorso lineare ma come un reticolo interlacciato di cavità che si espandono, si estendono, vengono piegate ed infine mutano; allora l’orrore di una fantasia non mediata comincerebbe ad aver luogo e ci consentirebbe di realizzare che le strade sono sempre più larghe dall’interno che dall’esterno”
Ogni numero di Flaneur, come si diceva, cambia di volta in volta. Con le città cambiano anche i narratori? C’è una linea, un autore o un narratore che rimane sempre identico in ogni numero della rivista?
Fabian Saul: Noi stessi contribuiamo alla rivista per ogni numero. Talvolta in collaborazione con artisti locali, talvolta influenzati dalle storie che raccogliamo e dalle curiosità che ci portano in quel determinato luogo. La rivista ha pochi pilastri: Le osservazioni di Grashina, i “frammenti di una strada”, la mia serie di “Tracce di Resistenza” che si occupa di tracciare percorsi e linee tra storie differenti di resistenza connesse attraverso la strada. Ma generalmente cominciamo il lavoro su ogni numero della rivista, graffiando la superficie mentre tutti i contributi provengono dal luogo dove ci troviamo in quel momento e sono quindi del tutto nuovi per noi.
C’è un approccio specifico per affrontare la narrazione in Flaneur? Architettura, storia, filosofia e anche sound design sembrano coinvolti. C’è un limite o l’unica regola è quella interdisciplinare?
Fabian Saul: Nessun limite. Siamo aderenti al concetto non al medium o ad una specifica disciplina. Cerchiamo di spingere l’interdisciplinarietà e i confini del supporto stampa tanto quanto siamo in grado di fare, e realizzando quelle estensioni audiovisuali di cui parlavamo nella nostra sezione “Unprintables” che è nel nostro sito ufficiale.
Allora perché solamente una strada rispetto all’insieme della città? È un’unità cognitiva? Qual’è la ragione di questa scelta?
Fabian Saul: Limitarci ad un microcosmo è la chiave. Usare la strada è potente ed è qualcosa che sembreebbe relazionarsi direttamente alla nostra idea di identità logica lineare, ma la strada non risponde realmente a questa logica, è un reticolo interlacciato di cavità, come si diceva. C’è quindi qualcosa di invisibile da rivelare, livelli in cui immegersi e tutto questo ha una grande potenza letteraria: creiamo correlazioni ricche di significato tra storie, persone, luoghi e oggetti che non sono necessariamente in relazione tra loro. Questa è la magia.
C’è secondo te una realtà dove è impossibile praticare la tecnica del flaneuring? Per esempio, alcune città cinesi neocostruite, dove il passato viene completamente sradicato?
Fabian Saul: Il passato non viene mai completamente distrutto, ma abbiamo alcune idee in relazione a “nuovi mondi” e altre che partono dal graffiare la superficie. Questi concetti hanno molto a che fare con il passato. Pensa a New York per esempio: la griglia suggerisce la proiezione di un nuovo mondo, prima del quale non esisteva niente. Ma Broadway, per esempio, non fa parte di quella struttura, questo perché si tratta di uno dei vecchi tracciati dei Nativi che è sopravvissuto perché era abbastanza largo per far passare le carrozze. Penso che la tecnica del flaneuring sia un concetto di natura più psicologica che non legato strettamente alla deambulazione. Camminare è una strategia fruttuosa che consente di sincronizzarsi con quello che ti circonda, ma questo non significa che non sia possibile trovare altre strategie.
La superficie di Indie-eye ha una doppia natura. Cinema e Musica. C’è qualcosa per te, nell’esperienza di ascolto e in quella della visione che ha la qualità del flaneuring?
Fabian Saul: Credo che tutta l’idea del flaneuring sia un concetto cinematico. Christopher Isherwood (N.d.a. scrittore inglese stabilitosi in California nel 1946, autore tra le altre opere di A Single Man, da cui Tom Ford ha tratto l’omonimo film) lo ha sintetizzato al meglio: “Sono una macchina da presa con l’otturatore aperto, passivamente registro e non penso. Registro l’uomo che si fa la barba dalla finestra di fronte, oppure la donna in Kimono che si lava i capelli. Un giorno tutto questo sarà sviluppato, stampato attentamente, fissato“. Guardiamo troppo ai mezzi e crediamo sia necessario trovare o citare un film per parlare di cinema. Se guardiamo al concetto che ci sta dietro, non c’è niente di sbagliato se consideriamo Flaneur come una macchina da presa introspettiva, molto egocentrica.
Riguardo ai suoni. Nel numero dedicato a Roma c’è una percezione sonora di Corso Vittorio. In ogni numero scegliete questo tipo di prospettiva? Flaneuring è solamente una questione di sguardo oppure coinvolge anche la dimensione aurale e quella aptica?
Fabian Saul: Viviamo in una cultura che è troppo concentrata sulla visione, tanto da dimenticarci che gli aspetti musicali, aptici e la qualità materica delle cose è altrettanto importante, se non più influente, per la nostra percezione (N.d.a. L’idea del corpo non più come oggetto visibile ma anche come soggetto percettivo è al centro della seminale raccolta di scritti sul cinema di Vivian Sobchack intitolata Carnal Thoughts). Quando pensiamo al flaneuring come concetto cinematico, credo che uno dei vantaggi sia l’inclusione di un livello sonoro e anche del movimento, come composizione dello sguardo. La musicalità è stata parte di quasi tutti i numeri della rivista. Nell’ultimo numero l’artista Iris Touliatou (N.d.a. artista berlinese che lavora sul rapporto tra storia e rappresentazione da una prospettiva multidisciplinare che in un modo molto simile a Flaneur Magazine mette insieme architettura, arti visive, cinema, teatro e design) si confronta con l’odore della strada, proprio per questo la rivista oltrepassa il limite dello sguardo.
Puoi rivelarci alcune anticipazioni sul prossimo numero di Flaneur Magazine?
Fabian Saul: Andremo a Mosca. Non facciamo mai ricerche prima di andare nel posto che scegliamo, per non perdere l’impatto del primo incontro intuitivo. L’intera rivista prende forma durante la nostra permanenza, proprio per questo è impossibile anticipare come sarà.