“Perché non lavoriamo su qualcosa di più pop?”
Alps, Yorgos Lanthimos (2011)
Cavalli che ordinati viaggiano in aereo, che come automobili vengono portati all’autolavaggio e sulle automobili siedono ligi accanto agli uomini, gli stessi uomini con cui si accomodano a tavole apparecchiate fuori contesto, gli stessi nelle cui case entrano domestici, poi sessualizzati: è lo spot che Yorgos Lanthimos – a suo tempo (Kinetta, Kynodontas, Alps) capofila di quella particolare sinergia di cinematografico e politico che nella sperimentazione significativamente aberrante di un realismo paradossale si definisce “Greek Weird Wave” – dirige per la campagna pubblicitaria 2020 di Gucci. È l’apoteosi di un’estetica pop che muove dalla riattualizzazione nostalgica dei caldi cromatismi e del folk rock anni Sessanta, eppure è insieme, irriducibilmente Lanthimos, prodotto coerente con l’universo semantico che il regista ellenico ha stratificato negli anni, ridisegnando ogni volta un mondo chiuso e straniante in cui il gap tra norma e stravaganza è azzerato, dove ognuno è bestializzato e l’istintualità della bestia conformata e uccisa.
Legato in nuce alle contingenze della Grecia contemporanea – Medea che rovescia la vendetta sui suoi figli ignari – il cinema di Lanthimos è in grado di sublimare le storture del particolare in una forma linguistica autosufficiente e al contempo smaccatamente politica, se personale è politico, e universale, se personale è anche, archetipicamente, universale. Così, il discorso procede con incredibile continuità oltre ogni antitesi tra art film e mainstream, passando dalle piccole produzioni autoctone degli anni Dieci alla – appunto – brandizzazione dell’audiovisivo. In mezzo: Hollywood.
Se The Lobster e Il sacrifico del cervo sacro (The Killing of a Sacred Deer) riplasmano infatti le convenzioni del genere e rovesciano le attese indotte dalla presenza della star proprio attraverso quel sadismo grottesco capace di gettare una luce mostruosa eppure irresistibile sulla bassezza delle nevrosi umane che già si configurava come nucleo primo del Lanthimos più vicino alle ultime temperie del Dogma 95 – vicino non fosse che per constatare l’impossibilità di ogni realismo dal momento che tutto è copia, è con La favorita (The Favourite) che il regista, misurandosi per la prima volta con una sceneggiatura che non porta anche la sua firma, sradica l’obiettivo dalla sospensione più o meno distopica dello spazio-tempo per ritrovare nella matrice della Storia (storico è personale, personale è politico e universale, si diceva) – e della storia del cinema – le stesse anomalie che attanagliavano burattini e burattinai del “periodo greco” nella prigione di un’esistenza inautentica. La farsa inderogabile – pena l’annientamento (Alps) – che è la vita, trova allora la sua espressione più popolare nella teatralità esasperata, ovvero nell’altra faccia ugualmente alienante di quella recitazione asettica e respingente propria dei film precedenti.
Alla corte settecentesca della regina Anna d’Inghilterra (Olivia Colman), ultima degli Stuart, la scaltra Lady Sarah Malborough (Rachel Weisz) combatte due guerre: quella di successione spagnola, manovrando a suo favore l’incapacità di giudizio della sovrana malata di gotta oltre che psicologicamente instabile per la perdita di diciassette figli sostituiti con conigli in gabbia – in fondo è la stessa cosa (Kynodontas), e l’altra guerra, quella privata, ma che pure riguarda la prossimità al potere, con la cugina Abigail Hill (Emma Stone), arrivata a palazzo per farsi protagonista di una spudorata ascesa sociale portata avanti a costo di ogni sopruso subito e senza scrupoli per ogni inganno perpetrato.
Due donne (più una, infine “rinsavita” se il senno è inscindibile dalla prepotenza) si contendono il teatro del mondo: il singolare sguardo sul femminile della weird wave è reiterato, ma la variazione che riguarda il ruolo degli uomini, qui nient’altro che insignificante carta da parati, marionette inconsapevoli di non contare nulla, dà al motivo aperture inedite. Anna, Sarah ed Abigail sono infatti il prolungamento a ben vedere ovvio di quelle superstiti all’abuso che, deturpate ma vergini di ogni umanità, riuscivano ad evadere dal carcere di una normalità contraffatta, già ripagando i tiranni della loro stessa moneta: con imbrogli e violenza. Così, le speranze della sorella maggiore di Kynodontas, scappata dal deformante recinto domestico e lasciata da Lanthimos in un bagagliaio che avrebbe potuto aprirsi – oppure no – come finestra sull’autentico, e quelle delle donne di Miss Violence (Alexandros Avranas, 2013), tra le quali primeggia la madre, prima assassina del ripugnante marito, poi terribile nel girare a sua volta la chiave dell’omertà, si infrangono sulla superficie di un sistema bidimensionale che non conosce – ammesso che da qualche parte esista – altro linguaggio che non sia quello della prevaricazione, altra logica all’infuori dell’interesse, altra verità diversa da una somma di menzogne.
Il regista ristabilisce insomma una parità raccapricciante che non lascia spazio ad alcuna forma ancestrale di compassione, e ribadisce ancora una volta l’interscambiabilità di ogni individuo fino all’annullamento delle differenze di genere, esito che si fa esplicito nei robotici, ciclici scambi di ruolo di Nimic, cortometraggio del 2019. Al capezzale della regina, le tre sono riunite per la prima volta nello spazio di un’inquadratura, affastellate l’una sulle altre in un susseguirsi di barocche dissolvenze, mentre Anna ricorda di aver incontrato Sarah dopo aver patito le umiliazioni di un “maiale” (la colonna sonora ne evoca la bestialità attraverso un cadenzato, inquietante grugnito), ma nulla è cambiato se sopra di lei ora stanno Sarah e Abigail. Sara o Abigail? Entrambe sono, a fasi alterne, la Favorita, perché entrambe sono la stessa cosa, ovvero indossano la stessa, imperitura maschera sotto la quale prolifera la miseria morale che sola può derivare dal massimo dell’abbrutimento possibile. Di Abigail sappiamo essere stata persa a carte da suo padre, ceduta in moglie a uno dei tanti (tutti) spregevoli, e allora non è un caso se sua è la simulazione più suadente: dalla trasparente lealtà delle cucine alle accondiscendenti premure per la regina, al fondo unicamente l’impulso di schiacciare il più debole.
E nel bildungsroman lanthimosiano dai valori rovesciati il sesso gioca sempre un ruolo deturpante: mistificazione per eccellenza di ieri e oggi, per Abigail scala di accesso ai piani alti della società.
La recita della violenza di Kinetta, la riconfigurazione falsata degli esistenti in Kynodontas, il paradosso dei surrogati di Alps, l’automazione sentimentale di The Lobster, trovano dunque il loro sbocco naturale ne La favorita, inscindibilmente legata pure a quella tragedia tanto classica quanto kubrickiana che era Il sacrificio del cervo sacro, chiusa in un requiem dallo stesso Bach che getta un ponte sonoro proprio sul successivo quadro in costume. Un quadro che di Kubrick riprende ancora le geometrie compositive, manifeste nella luminosa affinità con Barry Lindon, ma che non di meno guarda a modalità autoriflessive riconducibili al Greenaway de I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract): Lanthimos scava nell’immagine un di più di senso innestando sul piano del discorso le distorsioni che da sempre connotano il proprio universo filmico. Grandangoli spinti su ambienti fastosi, fish-eye insistiti su volti eccessivi, panoramiche a schiaffo sull’incedere dei personaggi: sono marche linguistiche dell’abominevole e ridicola tragicommedia senza fine che si consuma al ralenti – quello di un’eterna corsa tra anatre selvatiche cui viene imposto l’autocontrollo – entro le cinta della società convenzionale. Se ogni fuga è impossibile, forse che un residuo di genuinità sta proprio nella deformazione, qui nella smorfia com’era altrove nella danza primitiva e, pur momentaneamente, catartica.