Ozon mette nuovamente al centro la famiglia partendo dalla Broken Lullaby di Lubitsch e Rostand, accentuandone i toni sepolcrali e scegliendo un bianconero rigoroso attraversato da rari inserti a colori. Menzogna e desiderio, con un occhio rivolto a Rohmer, sono gli elementi che sviluppano il dramma, slittamenti di senso a cui ci ha abituato e che forse hanno segnato negativamente proprio i suoi film più deboli e schematici.
Frantz è un film altrettanto chiuso nelle dinamiche causali, ma ha il fascino di un fuori campo che preme continuamente dai margini del racconto tradizionale, dove il non detto scardina continuamente la centralitá della messa in scena.
Il segreto di Adrian Rivoire, che l’ufficio stampa del film ha chiesto esplicitamente di non rivelare, non si lega semplicemente all’amicizia vera o presunta con Frantz, il giovane tedesco deceduto durante il primo conflitto mondiale, ma si confonde, nel gioco tra memoria e desiderio, con un difficile percorso identitario nella societá del dopoguerra, raccontata do Ozon con rarissimo gusto e senso dell’equilibrio, attraverso una commuovente antropologia famigliare basata sui volti e i gesti dei personaggi.
Il rischio di chiudere tutto quanto in un levigato esercizio di calligrafia viene scongiurato dall’amore e l’empatia per tutti i personaggi, a partire da quello di Anna, la promessa sposa di Frantz, accolta dai genitori di lui come una figlia e testimone improvvisa del dolore di Adrien sulla tomba del fidanzato defunto.
Anna è un testimone del tempo e Ozon le affida il compito di viaggiare da un contenitore sociale all’altro, da una famiglia all’altra, fino all’incontro con un quadro di Manet che avevamo immaginato diverso e che biforca ulteriormente il senso.
Come ne ‘Le suicidé’, l’eroismo, l’idealismo, la Storia di regime, l’arte stessa, diventano elementi a cui non è più possibile riferirsi, ed è sorprendente che la voglia di vivere nuovamente cominci proprio da quell’immagine, evidente e indicibile allo stesso tempo.