Una donna con un impermeabile sdrucito emerge dai binari della metropolitana. Con passo incerto si avvicina alla zona più ampia della fermata e chinandosi, piscia per terra di fronte allo sguardo attonito della gente. Inizia così il secondo lungometraggio dell’autrice polacca Agnieszka Smoczyńska, con i toni grigi e desaturati della fotografia curata da Jakub Kijowski e una sfrontatezza brutale, degna dello Zulawski più urbano, che come sappiamo ci ha mostrato la morfologia superficiale delle città, organismi complessi minacciati da improvvise spaccature verso l’osceno, l’indicibile, l’abietto.
Il corpo derelitto di Gabriela Muskała non evoca semplicemente l’immagine del clochard o di tutti coloro che vivono ai margini della società. Il campo lungo scelto come punto di vista non consente equivoci, ma allo stesso tempo trattiene una disturbante ambiguità nel contrasto tra le vertiginose pump su cui la donna si regge e l’interminabile urgenza fisiologica filmata in tempo reale, coesistenza tra la dimensione erotica e quella organica, sul crinale dell’esclusione sociale.
Capelli cortissimi e disordinati, vestiti essenziali e pratici, quasi ritagliati sulla figura della nomade anarchica, Alicja sembra non avere un passato. Non ricorda niente, tranne un vago girare a vuoto. Rientra in contatto con quella che si presume sia la sua famiglia di origine grazie ad uno show televisivo dedicato alle persone scomparse e altrettanto brutalmente, dopo un’assenza di due anni fa il suo ingresso in uno spazio alieno che non riconosce più. Impermeabile all’affetto dei genitori e allo sguardo indagatore del marito, compare come un fantasma nella cameretta del figlio di cinque anni, alimentando quel senso di terrore che si prova quando si entra in contatto ravvicinato con l’estraneità.
A tre anni di distanza dai colori e dalle scelte ultra-pop di “The Lure“, la Smoczyńska fa una scelta coraggiosa e insieme alla stessa Muskala che scrive la sceneggiatura, azzera l’impatto formale del suo debutto, declinandone con mezzi diversi la medesima urgenza ribelle. Quello che era un film “punk” nella migliore accezione, da Allan Moyle a Slava Tsukerman, si trasforma in uno studio sull’ambiente, attraversato da una tensione sotterranea e contrastante, la stessa che nel percorso di educazione sessuale raccontato nel film precedente, veniva contenuta senza ipocrisia e moralismo sui volti e i corpi acerbi di Michalina Olszanska e Marta Mazurek, vero “effetto speciale” del film insieme alla conclusiva e dolorosa immersione della Olszanska, che con il volto insanguinato si separa dalla crudeltà dei sentimenti umani.
Finiva con uno strappo e con l’inabissamento de/al “mondo” “The Lure”, comincia con un’emersione “Fuga”, dove il contatto con le strategie della fiaba sopravvive solamente nella splendida sequenza di animazione che apre il film, realizzata da due illustratori e animatori di talento come Kacper Zamarlo e Julia Mirny , ripresa in forma mutante e floreale nella sequenza di digital art in cui Alicja/Kinga si sottopone a risonanza magnetica. Ma soprattutto, l’ossatura essenziale del folktale contamina questa perdita della strada maestra senza soluzione di continuità, con la foresta che circonda l’ambiente famigliare, come accade nel debutto di Jagoda Szelc, altra autrice polacca da tenere assolutamente d’occhio.
Slegata da qualsiasi forma di empatia con il proprio ambiente Alicja respinge l’identità di Kinga, la donna che era al centro di quello spazio. Può adesso osservarlo ed osservarsi da una distanza testimoniale. La Smoczyńska colloca Alicja/Kinga nella posizione dell’osservatore, testimone inquietante di un rituale come quello famigliare, messo inesorabilmente in abisso. Non solo l’organizzazione geometrica del set, lo spazio casalingo filmato come in una teca di vetro, i primi contatti con il figlio, descritti come apparizioni fantasmatiche, ma anche i piccoli “sabotaggi” del quotidiano, tra cui l’accensione elettrica del piano cottura che non funziona e che costantemente rompe il silenzio dello spazio funzionale, introducendo un “punctum” tra le tante “invisibili evidenze”.
Piccoli indizi che impostano la natura mutevole del racconto a partire dalla rappresentazione di uno spazio transizionale. Di che tipo di “Fuga” ci stanno parlando la Smoczyńska e Muskała, al di là dell’escamotage narrativo di partenza?
Dal rifiuto della maternità, come scelta possibile, al riconoscimento dell’abiezione come “oscura rivolta dell’essere” contro una minaccia che traduce, mutevolmente, l’interno nell’esterno, “Fuga” cerca sottilmente la coesistenza della seduzione con la nausea, facendola collidere nell’apparente inerzia della cornice quotidiana e nei gesti minimi dei suoi attori. Corpi che entrano ed escono da una parte, attraverso l’elaborazione personale di una, due, mille più perdite.
Gli snodi arditissimi di “The lure”, giustificati da un’impostazione vicina alla libertà dell’espressionismo pop e del surrealismo pittorico polacco, nel film riletto attraverso l’influenza diretta del mondo zoomorfo creato da Aleksandra Waliszewska, vengono spogliati dall’orpello figurativo, ma conservano la stessa violenza “ex abrupto”, qui assolutamente flagrante nel contrasto tra l’illogicità del desiderio e la normatività del mondo polacco contemporaneo, regolato secondo i parametri di un’immagine asfitticamente cattolica.
Di quel mondo la Smoczyńska rileva la staticità e l’ipocrisia, senza giudicare, ma restituendoci una serie di ritratti dolenti, a partire dai genitori di Kinga fino al suo “doppio” surrogato, l’amica d’infanzia (Malgorzata Buczkowska) che ha lentamente preso il suo posto, candida e completamente immersa nel ruolo di madre ordinaria, osservata attraverso l’azione maieutica di Alicja/Kinga inizialmente con disprezzo, poi con un sentimento di rivalsa, infine con profonda empatia; uno sdoppiamento che in un certo senso porta con se ancora una volta radici Zulawskiane.
Quella che sembra una sezione conclusiva esplicativa è in realtà l’attraversamento palindromo di uno specchio e mentre l’immagine ci mostra una targa commemorativa di difficile lettura ai margini della foresta, quell’essere già morti testimoniato esplicitamente da Alicja/Kinga coinvolge in realtà tutti i personaggi, la cui presenza ha una qualità quasi sempre sospesa. Sono le parole. spesso minimali, che nel film della Smoczyńska contrastano la visione; sono le immagini a sfuggire e a mostrarci l’indefinitezza dell’orizzonte. Le origini del trauma diventano allora reversibili. Chi ha dimenticato? Chi e che cosa è ancora vivo nella rete di relazioni impostate da una microsocietà e ancora, il diritto all’oblio, qualcosa di più di una norma garantita dal diritto, è la possibilità di riconfigurare il proprio orizzonte e di inabissarsi nuovamente, nella straordinaria indifferenza del paesaggio.