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Gebo e L’Ombra di Manoel De Oliveira: la recensione

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire […] ogni prima lettura è in realtà una rilettura » diceva Italo Calvino. E se ci si chiede perché Manoel De Oliveira attinga al dramma O Gebo e a Sombra del connazionale Raul Brandao, la risposta va rintracciata proprio nell’aforisma calviniano. Perché quella dello scrittore portoghese è un’opera carica di un valore universale, una storia che travalica le barriere del tempo e dello spazio, imponendosi come una lucida riflessione sulla contemporaneità, così come all’epoca (1923) si inquadrava come esplicita denuncia alla società portoghese degli anni venti, segnata da una forte instabilità politica, tra corruzioni, squilibri sociali e dittature militari.

De Oliveira non si discosta dalla natura dell’opera, riproponendo un decoupage teatrale, con inquadrature frontali e lunghi piani sequenza con camera fissa. La fedeltà al contesto teatrale si esplicita anche attraverso la distribuzione degli spazi e la recitazione, non priva di occasionali divagazioni dei personaggi, in un richiamo all’escamotage del monologo teatrale come flusso di pensiero. La quarta parete riacquista il suo statuto originario, in una soluzione di raccordi spesso non coincidenti, a richiamare l’obbligato spazio frontale del palcoscenico.

È un ritorno alla poetica e allo stile di mise en scène già elaborato nella trilogia degli anni Ottanta, composta da Le Soulier de Satin (1985), Mon cas (1986) e I cannibali (1988), dove l’impianto teatrale fa da perno per riflessioni metacinematografiche sul linguaggio filmico nei suoi aspetti spaziotemporali, dalla frontalità dei campi alla durata dell’inquadratura e al montaggio interno.

Gebo e L’Ombra è in quest’ottica un sunto di tutti i temi più cari al regista, mettendo in campo anche e soprattutto quei richiami ad atmosfere dostoevskijane e una struttura ‘claustrocentrica’ da film ‘da camera’ già rintracciabili nella produzione degli anni Novanta (La Divina Commedia, Party).

I personaggi si muovono in spazi conchiusi, incastrati in una vuota routine che scorre sempre uguale, monotona, fredda, che porta a chiedersi se si è vivi o già morti. È l’immobile esistenza in cui vigono rassegnazione e sottomissione ai doveri, tanto da accettarli incondizionatamente, fatalmente afflitti da un potere oppressivo. «La nostra fortuna nella vita è la routine. […] La gioia è poter fare sempre lo stesso lavoro, dire le stesse parole» dice Gebo, perso nei vacui e vani rituali compulsivi, dal consumo di caffè ai continui calcoli contabili per il padrone. Ma non si può non leggere in queste parole un altrettanto valido riferimento all’atto stesso del recitare; il continuo ripetere, come condannati ad un eterno e asfissiante iterare. Riflessioni metateatrali che si intrecciano  e rifrangono nei più complessi concetti sull’esistenza, l’identità e la verità.

L’invisibile conflitto endogeno, dietro l’apparente quiete, è infatti quello tra l’onesta povertà e la disonesta ricchezza. L’interno scontro tra Luce e Ombra, tra dentro e fuori, pensiero e azione, tra l’onesta facciata e la tentazione; il desiderio di rivalsa dal proprio meschino status sociale.

De Oliveira propone quindi una rivalutazione del concetto di criminalità. Le concezioni di bene e male, in una società volta all’ingiustizia, all’imposizione di regole inique, giungono ad un ribaltamento, vanificando i doveri verso uno stato che non si astiene dallo schiacciare il povero nella sua scalata al potere.

«Meglio morti che sepolti vivi» dice Joao, il figlio che stanco del suo misero status abbandona la famiglia per dedicarsi al crimine, l’incarnazione di quell’Ombra di Gebo, sotto la cui minaccia è costretto a vivere, ma che rappresenta quel lato oscuro di una vita donata all’onestà. Il servilismo e l’accondiscendenza assumono quindi la valenza di vero crimine, rispetto ad un contesto che trova nell’annullamento dell’individuo la sua forza primaria.

Il finale riaprirà la questione relativistica tra bene e male, tra la società e l’individuo, quasi costretto al crimine, in un processo alienante che lo porta alla dissociazione, all’atto disincarnato, alla scissione tra corpo e ombra nel tentativo di sfuggire alla triste e rassegnata ripetizione: «Non sono stato io, non sono stato io!» grida Joao dopo l’estremo atto di disperata rivalsa, dopo l’assassinio a cui, non una natura perversa, ma una degenere società lo ha costretto.

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