giovedì, Dicembre 19, 2024

Gli ultimi saranno ultimi di Massimiliano Bruno: la recensione

Massimiliano Bruno torna con il suo cinema corale compiendo una sterzata politica più decisa rispetto ai film precedenti, aspetto sempre presente fin da “Nessuno mi può giudicare” dal quale riprende la riflessione sul lavoro, invertendo occorrenze drammaturgiche e polarità. La commedia, intesa come territorio liminale tra generi, è ancora il motore che gli consente di oltrepassare i bordi, modulando spesso i toni in direzioni opposte e contrastanti.

Se si pensa a Valerio (Alessandro Gassmann) quando in “Viva l’Italia” sorprende la moglie mentre consuma un tradimento, la concatenazione di eventi che lo isola improvvisamente dal mondo spingendolo a quella reazione che il padre sembra suggerirgli da anni, è la stessa che conduce Luciana (Paola Cortellesi) a seguire il ricordo delle sollecitazioni paterne. Marione il sindacalista, è una presenza invisibile nel film, ma vive ancora nella memoria di chi lo ha conosciuto, con un profilo non così lontano da quello di Michele Spagnolo (Michele Placido) nel secondo film del regista romano, politico di un’Italia ormai compromessa dalla corruzione che improvvisamente fuori controllo si trova al centro di un cortocircuito individuale e famigliare, unica possibilità da cui ripartire.

È interessante e assolutamente coraggioso il modo in cui Bruno si trovi a riproporre coerentemente gli elementi di un racconto che attraversa tutti i suoi film con un vero e proprio processo di disseminazione, non solo attraverso i rimandi giocosi e divertiti (la canzone “senti come sento il sentimento“) ma nell’impiego di alcuni frammenti narrativi re interpretati da diverse angolature, mettendo al centro il lavoro, la famiglia, le relazioni e le antinomie della vita.

Gli ultimi saranno ultimi” riassume tutta la filmografia precedente declinando la frammentazione pirotecnica dei titoli più scatenati (su tutti, Confusi e felici) con un maggiore approfondimento orizzontale delle dinamiche che muovono i personaggi e abitando quel confine che consente di trasformare le “situazioni” della commedia nell’innesco della tragedia, tanto che la causalità che muove il gioco degli eventi diventa l’elemento “meccanico” comune di questa biforcazione, perché è sufficiente un lieve slittamento di senso o uno scambio semantico per imboccare la deriva della gag o il riflesso tragico nello sguardo che gli ultimi esercitano sulla loro realtà.

In questo senso ci è sembrata esemplare la sequenza che mette letteralmente in trasparenza la vita del poliziotto Antonio Zanzotto (Fabrizio Bentivoglio) con quella di Luciana, dei suoi ex datori di lavoro e delle guardie giurate preposte alla sorveglianza, attraverso la prospettiva del palazzo di vetro aziendale, dove a un certo punto una sola immagine dispone in profondità minaccia e precarietà, regola e infrazione, equilibri e disequilibri di un dispositivo il cui funzionamento sembra agganciato ad un filo, come tutto il cinema di Massimiliano Bruno, da sempre sottoposto ad improvvisi rovesciamenti del punto di vista.

Lo stesso ralenty, ripreso in un certo senso dalla deambulazione di Michele Placido che in Viva L’italia si trova improvvisamente in mezzo agli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, viene utilizzato per evidenziare un contrasto sensoriale che non muta la percezione dei suoni ma concentra sul personaggio tutta la forza iperrealista di una falsa soggettiva, per suggerire un progressivo scollamento tra meccanismo e individuo, realtà mondana e persona; un’incrinatura nel tempo e nello spazio sociale che si ripete quando Luciana spacca un orologio durante la festa del paese. A un certo punto, tutti gli elementi della commedia nel cinema di Bruno convergono in un’arena collettiva che isola oppure confonde i personaggi nel dialogo con gli altri, per quello slittamento del punto di vista di cui parlavamo.

Luciana e Stefano (Alessandro Gassmann) si trovano al centro di un abbraccio collettivo durante una scena festante mentre si canta Infinito di Raf, in un dialogo tra percorso individuale e collettivo molto simile a quello di “Nessuno mi può giudicare” quando Raoul Bova è costretto a duettare con la Cortellesi sulle note di “Se mi vuoi” e di polarità opposta all’odio che il figlio di Valerio in Viva l’Italia scaglia contro il padre a ritmo di rap dal palco di un club.

L’improvviso sconfinamento di questo universo pop che in “Nessuno mi può giudicare” diventa marcatura esplicita quando la Guzzanti porta Fausto Leali nell’internet point gestito da Bova, diventa ne “Gli ultimi saranno ultimi” più sottile in termini metalingustici ma altrettanto combinatorio nel passare da uno stato all’altro, da Raf agli Afterhours, dalla tragedia al melò di Riz Ortolani, elaborando lo stesso rapporto generativo tra testo e immagine, con quel bambino “che spara dritto davanti a se a quello che non c’è” tenendo in mano una pistola giocattolo, immagine che ricorre più volte e che dialoga a distanza ravvicinata con le coscienze di Luciana e di Antonio Zanzotto.

È un procedimento che non imbocca solamente una direzione evocativa tra parola e immagine, operando anche per contrasto, basta pensare a quel movimento ascensionale che segue lo sguardo e le parole aspre di Luciana per poi arrestarsi sui ripetitori di Radio Maria, il cui inquinamento atmosferico preme come una minaccia lungo tutto il film in una combinazione amarissima tra il gioco della gag e la rappresentazione della coscienza di un intero paese, le cui illusioni di riscatto coincidono con il peso di un potere che proprio a partire dagli ultimi ha costruito la principale fonte di rafforzamento.

Come nel Virzì de Il capitale umano  e con una forza maggiore rispetto ai suoi precedenti film, Massimiliano Bruno sfrutta i confini della commedia per delineare quelli di un territorio apolide positivamente “eccedente” in molteplici direzioni e di grande vitalità creativa, individuando una dimensione politica non solo nella sostanza del racconto, ma in quello scambio semantico tra generi e linguaggi popolari, da sempre al centro del cinema del regista romano e che troppo spesso è assente da quello italiano, così ancorato ad una rilettura pedissequa e senza rischi di un mercato dei generi al collasso.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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